Guerra e demenza (senile) – di Franco Bifo Berardi

March 5th, 2022 by dbpoff

Ucraina, agonia dell’Occidente & co: quello che ci occorre è una geopolitica della psicosi. Pubblicato sul blog di Nero il 28 febbraio 2022, qui.

Annientare

Anéantir, l’ultimo libro di Houellebecq, è un volume di settecento pagine, ma la metà basterebbe. Non è il migliore dei suoi libri, ma la più disperata rappresentazione, insieme rassegnata e rabbiosa, del declino della razza dominatrice.

Francia profonda. Una famiglia si riunisce intorno all’ottantenne padre colpito da ictus. Coma interminabile del vecchio patriarca che lavorava per i servizi segreti. Il figlio Paul, che lavora anche lui per i servizi segreti ma anche per il Ministero delle Finanze, scopre di avere un cancro terminale durante il coma interminabile del padre. L’altro figlio, Aurélien, fratello di Paul, si suicida, incapace di affrontare una vita in cui si è sempre sentito sconfitto. Resta la figlia, Cécile, cattolica integralista moglie di un fascistoide notaio che ha perso il lavoro, ma ne trova un altro negli ambienti della destra lepenista.

La malattia terminale è il tema di questo romanzo mediocre: l’agonia della civiltà occidentale.

Non è un bello spettacolo, perché la mente bianca non si rassegna all’ineluttabile. Tragica la reazione dei vecchi bianchi agonizzanti.

Lo scenario in cui questa agonia si svolge è la Francia di oggi, culturalmente devastata da quaranta anni di aggressività liberista, un paese spettrale in cui la lotta politica si svolge nel quadrato mefitico di nazionalismo aggressivo, razzismo bianco, rancore islamico e integralismo economicista.

Ma lo scenario è anche il mondo post-globale, minacciato dal delirio senile della cultura dominatrice ma declinante: bianca, cristiana, imperialista.

Guerra | Agonia | Suicidio

Alla frontiera orientale d’Europa: due  vecchi bianchi giocano una partita in cui nessuno dei due può recedere.

Il vecchio bianco americano è reduce dalla disfatta più umiliante e tragica. Peggio che Saigon, Kabul rimane nell’immaginario globale come il segno del marasma mentale della razza dominatrice.

Il vecchio bianco russo sa che il suo potere si fonda su una promessa nazionalistica: si tratta di vendicare l’onore violato della Santa Madre Russia.

Chi recede perde tutto.

Che Putin sia un nazista è noto da quando concluse la guerra in Cecenia con lo sterminio. Ma era un nazista molto gradito al Presidente americano che guardandolo negli occhi disse di avere capito che era sincero. Molto gradito anche alle banche inglesi che sono piene di rubli rapinati dagli amici di Putin dopo lo smantellamento delle strutture pubbliche ereditate dall’Unione Sovietica. Erano amici carissimi i gerarchi russi e quelli anglo-americani, quando si trattava di distruggere la civiltà sociale, l’eredità del movimento operaio e comunista.

Ma l’amicizia tra gli assassini non dura. A cosa sarebbe infatti servita la NATO, se si fosse davvero instaurata la pace? E come sarebbero finiti gli immensi profitti delle aziende che producono armi di distruzione di massa?

L’espansione della NATO serviva a rinnovare un’ostilità a cui il capitalismo non poteva rinunciare.

Non esiste una spiegazione razionale della guerra ucraina, perché essa è il momento culminante di una crisi psicotica del cervello bianco. Che razionalità ha l’espansione della NATO che arma i nazisti polacchi, baltici, ucraini contro il nazismo russo? In cambio Biden ottiene il risultato più temuto dagli strateghi americani: ha spinto Russia e Cina in un abbraccio che cinquant’anni fa Nixon era riuscito a incrinare.

Dunque per orientarci nella guerra incombente non serve la geopolitica, ma la psicopatologia: forse ci occorre una geopolitica della psicosi.

Infatti in gioco c’è il declino politico, economico, demografico e alla fine psichico della civiltà bianca, che non può accettare la prospettiva dell’esaurimento, e preferisce la distruzione totale, il suicidio, alla lenta estinzione del dominio bianco.

Occidente | Futuro | Declino

La guerra ucraina inaugura una isterica corsa agli armamenti, un consolidamento delle frontiere, uno stato di violenza crescente: dimostrazioni di forze che in realtà sono segno del marasma senile in cui è caduto l’Occidente.

Il 23 febbraio 2022, quando le truppe russe erano già entrate nel Donbass, Trump, ex presidente e candidato alla prossima presidenza, giudica Putin un genio del peacekeeping. Suggerisce che gli Stati uniti dovrebbero mandare un esercito simile alla frontiera col Messico.

Cerchiamo di capire cosa vuol dire l’osceno Trump. Che nucleo di verità contiene il suo delirio? In questione è lo stesso concetto di Occidente.

Ma chi è l’Occidente?

Se della parola “Occidente” diamo una definizione geografica, allora la Russia non ne fa parte. Ma se di quella parola pensiamo il nucleo antropologico e storico, allora la Russia è più Occidente di ogni altro occidente.

L’Occidente è la terra del declinare. Ma è anche la terra dell’ossessione di futuro. E le due cose sono una sola, poiché per gli organismi soggetti alla seconda legge della termodinamica, come sono i corpi individuali e sociali, futuro vuol dire declino.

Siamo dunque uniti nel futurismo e nel declino, cioè nel delirio di onnipotenza e nella disperata impotenza, noi occidentali dell’Ovest e gli occidentali della smisurata patria russa.

Trump ha il merito di dirlo senza tante storie: i nostri nemici non sono i russi, ma i popoli del sud del mondo, che abbiamo sfruttato per secoli e ora pretendono di spartire con noi le ricchezze del pianeta, e vogliono emigrare nelle nostre terre. Il nemico è la Cina che abbiamo umiliato, l’Africa che abbiamo depredato. Non la bianchissima Russia che fa parte del Grande Occidente.

La logica trumpista si fonda sulla supremazia della razza bianca di cui la Russia è l’avamposto estremo.

La logica di Biden invece è la difesa del mondo libero che sarebbe poi il suo, nato da un genocidio, dalla deportazione di milioni di schiavi e fondato sull’ineliminabile razzismo sistemico. Biden rompe il Grande Occidente a favore di un Piccolo Occidente senza Russia, destinato a dilaniarsi, e a coinvolgere nel suo suicidio l’intero pianeta.

Proviamo a definire l’Occidente come sfera di una razza dominatrice ossessionata dal futuro. Il tempo si tende in una pulsione espansiva: la crescita economica, l’accumulazione, il capitalismo. Proprio questa ossessione di futuro alimenta la macchina del dominio: investimento di presente concreto (di piacere, di rilassamento muscolare) in astratto valore futuro.

Potremmo forse dire, riformulando un poco i fondamenti dell’analisi marxiana del valore, che il valore di scambio è proprio questa accumulazione del presente (il concreto) in forme astratte (come il denaro) che si possono scambiare domani.

Questa fissazione sul futuro non è affatto una modalità cognitiva naturale dell’umano: gran parte delle culture umane sono fondate su una percezione ciclica del tempo, o sulla dilatazione insuperabile del presente.

Il Futurismo è il passaggio alla piena autoconsapevolezza, anche estetica, delle culture dell’espansione. Ma i futurismi sono diversi e in qualche misura divergenti.

L’ossessione del futuro ha implicazioni diverse nella sfera teologico-utopica che è propria della cultura russa, e nella sfera tecnico-economica che è propria della cultura euroamericana.

Il Cosmismo di Fedorov e il Futurismo di Majakovski hanno  un respiro escatologico di cui sono privi sia il fanatismo tecnocratico marinettiano, sia i suoi epigoni americani alla Elon Musk. Forse per questo tocca alla Russia terminare la storia dell’Occidente, e ora ci siamo.

L’Occidente ha rimosso la morte perché non è compatibile con l’ossessione del futuro. Ha rimosso la senescenza perché non è compatibile con l’espansione.

Il nazismo è ovunque

Dopo la soglia pandemica, il nuovo panorama è la guerra  che oppone nazismo a nazismo. Gunther Anders aveva presentito nei suoi scritti degli anni Sessanta che la carica nichilista del nazismo non si era affatto esaurita con la sconfitta di Hitler, e sarebbe tornata sulla scena del mondo per effetto dell’ingigantirsi della potenza tecnica che provoca un sentimento di umiliazione della volontà umana, ridotta all’impotenza.

Ora vediamo che il nazismo riemerge come forma psicopolitica del corpo demente della razza bianca che reagisce rabbiosamente al suo inarrestabile declino. Il caos virale ha creato le condizioni di formazione di una infrastruttura biopolitica globale, ma ha anche accentuato fino al panico la percezione di ingovernabilità del proliferare caotico della materia che perde ordine, che si disintegra, e muore.

L’Occidente ha rimosso la morte perché non è compatibile con l’ossessione del futuro. Ha rimosso la senescenza perché non è compatibile con l’espansione. Ma ora l’invecchiamento (demografico, culturale, e anche economico) delle culture dominatrici del nord del mondo si presenta come uno spettro che la cultura bianca non può neppure pensare, figuriamoci poi accettare.

Ecco quindi il cervello bianco (quello di Biden come quello di Putin) entrare in una crisi furiosa di demenza senile. Il più sfrenato di tutti, Donald Trump, dice una verità che nessuno vuole ascoltare: Putin è il nostro migliore amico. Certamente è un assassino razzista, ma noi non lo siamo di meno.

Biden rappresenta la rabbia impotente che provano i vecchi quando si rendono conto del declinare delle forze fisiche, dell’energia psichica e dell’efficienza mentale. Ora l’esaurimento è in fase avanzata, l’estinzione è la sola prospettiva rassicurante.

Potrà l’umanità salvarsi dalla violenza sterminatrice del cervello demente della civiltà occidentale, russa europea e americana, in agonia?

Comunque evolva l’invasione dell’Ucraina, che divenga occupazione stabile del territorio (improbabile) o che si concluda con un ritiro delle truppe russe dopo aver compiuto la distruzione dell’apparato militare che gli euroamericani hanno fornito a Kiev (probabile), il conflitto non si può comporre con la sconfitta di uno o dell’altro dei due vecchi patriarchi. Né l’uno né l’altro possono accettare di recedere prima di avere vinto. Perciò questa invasione sembra aprire una fase di guerra tendenzialmente mondiale (e tendenzialmente nucleare).

La questione che al momento appare senza risposta è relativa al mondo non occidentale, che ha subito per alcuni secoli l’arroganza, la violenza lo sfruttamento di europei, russi e infine americani.

A Firenze si tiene un convegno sull’emigrazione e chiamano Marco Minniti come relatore, che è pressapoco come invitare Adolf Hitler a tenere una prolusione sulla questione ebraica.

Nella guerra suicida che l’Occidente ha scatenato contro l’Altro Occidente le prime vittime sono coloro che hanno subito il delirio dei due occidenti, coloro che non vorrebbero alcuna guerra, ma debbono subirne gli effetti.

La guerra finale contro l’umanità è cominciata.

La sola cosa che possiamo fare è disertarla, trasformare collettivamente la paura in pensiero, e rassegnarsi all’inevitabile, perché solo così può accadere, in contrattempo, l’imprevedibile: la pace, il piacere, la vita.

PpdS

December 14th, 2021 by dbpoff

Per chi è arrivato all’inceppamento pandemico a ridosso della ventina o poco di più, il carrozzone d’accadimenti sanitari-politici-esistenziali non potranno averlo lasciato del tutto indifferente, o forse meglio, al contrario, mai così indifferente, nel modo di considerarne gli strascichi.

D’eccezionale, in uno stato d’eccezione, vi è l’entità del carico di dolore imposto alla singola sopportazione, l’elevazione di grado della “certezza” dimostentata dal potere, legittimato e vidimato dall’opinione degli esperti, degli accademici, dei titolari del sapere legittimo che autorizza un potere legale d’azione che si allarga via via, e infine l’imposizione di nuovi e nuove gradi e condizioni di realtà che operano nella vita quotidiana; alterazioni linguistiche, prassi ordinarie, automatismi, regole, conseguenze di questi e di quelle.
D’eccezionale, in uno stato d’eccezione, vi è la condizione d’esistenza del singolo denudata della patina d’ipocrisie non dette che ne costituiscono gli assiomi nascosti, le traiettorie di senso oggi in crisi, secolarizzate. Le maglie dei vari poteri si serrano, circoscrivendo l’entità dei recinti e dei pascoli cui è concesso razzolare alle popolazioni nazionali, mentre il senso superiore tende a sgretolarsi del tutto e l’apocalisse si presenta come un quando, piuttosto che un ipotetico se, e tutto ciò in pieno e dispiegato scientismo, ateismo, ipermodernismo, transumanesimo.

Vi è d’eccezionalmente straordinario che qualcuno ha perso la voglia di fare programmi sul proprio futuro, pensare la propria vita come un capolavoro da non gettare nella pastoia dell’insignificanza spirituale, della mercificazione tout court dell’inconscia sovrapposizione identitaria fra i molteplici strati che si interpolano fra il reale, il virtuale, il metaverso attuale – che Andrea Olivieri rende bene, nel descrivere il varco 4 al porto di Trieste, dipigendo un quadretto composito di persone fisicamente presenti ma in tutto volte al loro proprio e stesso sconfinamento virtuale; una presenza realmente pixelata.

Denudati delle certezze ipocrite, bramosi di sicurezze stabili, timorosi del cambiamento, e della crisi, spogliati d’ogni trascendenza e d’ogni alterità possibile, rispetto quest’esausto mondo sensibile, ci scopriamo paralizzati su quelle rotaie, gli occhi fissi sui fari del treno che minaccia d’investirci come le generazioni che s’accavallano e sprizzano, odorano dal nostro sangue. Come traumatizzati, abbandonati alle nostre solitudini ci siamo scoperti piccoli, vuoti e freddi, incerti in tutto, incostanti, tiepidi in ogni sentire, sempre più assenti e soprattutto insensati, di passaggio, inutili, vani.

La pandemia è un bel bagno di realtà, o d’umiltà, prima di tutto il resto; forse l’unico elemento credibile, cui credere davvero è un imperativo morale, è questo quasi imprescindibile nichilismo di fondo, punto di partenza per una ricostruzione di senso possibile, consapevolmente generato, costruito, concordato, frutto d’un lavoro condiviso. Fino a questi tempi incerti, imperturbabili soltanto godevamo dei nostri privilegi, talvolta infastiditi da qualche dubbio di passaggio, qualche timore sul senso, ben presto represso in qualche piacere dei sensi, qualche soddisfazione della carne, un po’ di droga, un po’ di sesso. Ora, squarciato il velo, tutto ciò non basta più, ma al contrario, ulteriormente svela la voragine, i mostri polverosi che negli anni avevano costruito il proprio regno sotto il tappeto e le moquettes che fanno morbide tutte quelle strane, incomprensibili storture che pervadono i paesaggi operazionali ai bordi delle città, dove la vita urbana ancora sprizza e brilla, tempestata di vetrine e profumi che scorrono impetuosi fra le luci del centro dove s’ostenta e si nega, si mente e si trangugia, e tutto per non pensare, e ciò per non ridursi soli, nel buio, a piangere.

Io credo che non ne usciremo. Certo non migliori, ma nemmeno peggiori. Non ne usciremo e basta, le vie di fuga serrate una ad una, il dissenso sempre più stigmatizzato, strumentalizzato, manipolato e represso, schiacciato fra quelle pareti alte asfittiche e metalliche che adombrano i monumenti alle vittime dei totalitarismi, dei campi, del potere che giunto all’apice del ciclo di sé stesso non può che irrigimentarsi, crescere e fiorentemente splendere nello spreco, nell’abuso fine a sé stesso, nell’oltre il governo, l’amministrazione, la plasmazione, la costruzione e l’alterazione del soggetto suddito e della popolazione gregge: il controllo, oltre tutto questo, è prima di tutto predittivo, oltre che ovviamente repressivo. E’ nel circoscrivere il campo del pensiero possibile, nel plasmare vagonate d’individui che non possono pensare un altrimenti alla loro sudditanza, il “compimento del compito” portato a termine dallo Stato, dal potere, da chi comanda; allora la creatura si dimena, smania e impreca, ma poi poco alla volta si redime, e tristemente accetta la sua condizione, si piega e cerca di dimenticare.

Ogni giorno quelli come me si alzano e sanno che dovranno ribadirsi di esserci sebbene il senso latiti, dovranno guardare in faccia la propria insensata presenza al mondo, con un pugno ben assestato fracasseranno l’immagine riflessa nello specchio dentro di sé, la cui giornata inizia andando in mille pezzi, e versando lacrime di ghiaccio, preventivamente sedati, tristi e inconsolabili si siedono al tavolo della cucina, soli, che il sole splende già da un po’, ancora una volta sopraggiunti troppo tardi, premeranno un tasto e si troveranno un caffè in mano. Senza vie di fuga, senza vie d’uscita. E senza programmi sul futuro, progetti per un avvenire ri-sensato, disegni di vita, ragioni d’entusiasmo. Solo qualche parametro produttivo, qualche interazione ormai stinta, parole sorrisi pensieri inquietudini e poi di nuovo il buio, il silenzio rotto dai crepitii delle zone industriali dei dintorni, voci soffuse goliarde che imprecano qualche certezza, così per fuggire la paura. Il tasso d’invivibilità cresce, giorno per giorno, e la strenua ingenua irrazionale esigenza di sopravvivere con esso. E sempre e solo, in compagnia della noia.

Corpo Celeste

November 17th, 2021 by dbpoff
Questo spazio è la punta di ghiaccio dell’iceberg che è la vita sommersa; d’impegni, di fatiche e velleità. Fra le trame e l’asfissia, dopo tanto vagare nel nulla, talvolta qualche goccia di splendore filtra in controluce, quasi per caso. Oggi è un giorno in cui la ricerca quotidiana trova qualcosa: che cosa, questo è un altro discorso.
“… Ecco, ho finito. Ho finito anche di essere uno scrittore – se mai lo sono stata -, ma sono lieta di averlo tentato. Sono lieta di aver speso la mia vita per questo. Sono lieta, in mezzo alle mie tristezze mediterranee, di essere qui. E dirvi com’è bello pensare strutture di luce, e gettarle come reti aeree sulla terra, perché essa non sia più quel luogo buio e perduto che a molti appare, o quel luogo di schiavi che a molti si dimostra – se vengono a occupare i linguaggi, il respiro, la dignità delle persone. A dirvi come sia buona la Terra, e il primo dei valori, e da difendere in ogni momento. Nei suoi paesi, anche nei suoi boschi, nelle sorgenti, nelle campagne, dovunque siano occhi – anche occhi di uccello o domestico o selvatico animale. Dovunque siano occhi che vi guardano con pace o paura, là vi è qualcosa di celeste, e bisogna onorarlo e difenderlo. So questo. Che la Terra è un corpo celeste, che la vita che vi si espande da tempi immemorabili è prima dell’uomo, prima ancora della cultura, e chiede di continuare a essere, e a essere amata, come l’uomo chiede di continuare a essere, e a essere accettato, anche se non immediatamente capito e soprattutto non utile. Tutto è uomo. Io sono dalla parte di quanti credono nell’assoluta santità di un albero e di una bestia, nel diritto dell’albero, della bestia, di vivere serenamente, rispettati, tutto il loro tempo. Sono dalla parte della voce increata che si libera in ogni essere – al di là di tutte le barriere – e sono per il rispetto e l’amore che si deve loro.
C’è un mondo vecchio, fondato sullo sfruttamento della natura madre, sul disordine della natura umana, sulla certezza che di sacro non vi sia nulla. Io rispondo che tutto è divino e intoccabile: e più sacri di ogni cosa sono le sorgenti, le nubi, i boschi e i loro piccoli abitanti. E l’uomo non può trasformare questo splendore in scatolame e merce, ma deve vivere e essere felice con altri sistemi, d’intelligenza e di pace, accanto a queste forze celesti. Che queste sono le guerre perdute per pura cupidigia: i paesi senza più boschi e torrenti, e le città senza più bmbini amati e vecchi sereni, e donne al disopra dell’utile. Io auspico un mondo innocente. So che è impossibile, perché una volta, in tempi senza tempo e fuori dalla nostra possibilità di storicizzare e ricordare, l’anima dell’uomo perse una guerra. Qui mi aiuta Milton, e tutto ciò che ho appreso dalla letteratura della visione e della severità. Vivere non significa consumare, e il corpo umano non è un luogo di privilegi. Tutto è corpo, e ogni corpo deve assolvere un dovere, se non vuole essere nullificato; deve avere una finalità, che si manifesta nell’obbedienza alle grandi leggi del respiro personale, e del respiro di tutti gli altri viventi. E queste leggi, che sono la solidarietà con tutta la vita vivente, non possono essere trascurate. Noi, oggi, temiamo la guerra e l’atomica. Ma chi perde ogni giorno il suo respiro e la sua felicità, per consentire alle grandi maggioranze umane un estremo abuso di respiro e di felicità fondati sulla distruzione planetaria dei muti e dei deboli – che sono tutte le altre specie -, può forse temere la fine di tutto? Quando la pace e il diritto non saranno solo per una parte dei viventi, e non vorranno dire solo la felicità e il diritto di una parte, e il consumo spietato di tutto il resto, solo allora, quando anche la pace del fiume e dell’uccello sarà possibile, saranno possibili, facili come un sorriso, anche la pace e la vera sicurezza dell’uomo.
Ecco, come sono venuta vado via; e vi ringrazio di avermi ascoltata; mi scuso se ho detto troppo o confusamente; e se ho detto poco, e se ho potuto dispiacervi. Come dicono i bambini: non l’ho fatto apposta. Vi auguro un buon giorno di pace e di comprensione. La vita è più grande di tutto, ed è in ogni luogo, e da tutte le parti – proprio da tutte le parti – chiede amicizia e aiuto. Non chiede che questo. E il valore di ogni buona risposta è immenso, se anche non dimostrabile. Amate e difendete il libero respiro di ogni paese, e di ogni vita vivente.
Questo invito, alla fine, calma e consola la mia stessa tristezza, e il senso di essere stata uno scrittore inutile. Ma non lo sono stata del tutto se, oltre il mio respiro, ho appreso a desiderare il libero respiro di ogni creatura e di ogni paese. È tutto, il respiro. È Dio stesso; ed è la cultura quando non fine a se stessa; quando, d’un tratto – voi non lo sapevate che era anche questo -, solleva e trasporta i popoli, come fa a volte, con le confuse onde del mare, un gran vento celeste.” (19 febbraio 1980)
Anna Maria Ortese, “Corpo celeste”, Adelphi, Milano 1997, pp. 159, Lire 15.000

L’alienazione libertaria

November 8th, 2021 by dbpoff

Ferdinando Pastore su l’interferenza, otto novembre duemilaventuno

“Il Covid ci ha cambiati”. Questa considerazione scorre nelle conversazioni giornaliere, tra amici, nei bar. Talmente di uso comune ormai, di facile scorrimento, da alludere al fatto straordinario che nulla è cambiato.
Certo qualche conflitto sociale è riemerso dalle sabbie mobili del sindacalismo concertativo e qualche contraddizione di classe si riappropria di una sua naturale conflittualità. Ma l’uso comune della formula “ci ha cambiato”, il suo riferirsi a sintomatologie psicotiche, il suo svelarsi in termini allucinatori rappresenta di per sé una sconfitta culturale.
Ogniqualvolta una questione propriamente politica viene rovesciata al personale, a bisogni istintuali si offre spazio alle lezioni imprenditoriali sulle rigenerazioni personali, ai corsi di coaching che educano alla riscossa, allo stato performativo. O a cure farmacologiche. Così il percorso egemonico del “discorso capitalista” compie ulteriori passi in avanti. Psicologizzare le fratture sociali è lo stratagemma per anestetizzare la società.
Anche i giovani cadono nel tranello ed esprimono questa esigenza esistenziale. Lo si può notare nelle recenti occupazioni scolastiche dove le rivendicazioni – seppur qualcuna condivisibile – partono dalla descrizione di uno stato d’animo. Il trauma insuperabile degli anni vissuti a distanza, privi di connessioni. Mancata fioritura della Rete.
La spinta ribelle si nutre di frustrazione, del disagio di non poter essere qualsiasi cosa. Di un difetto di potenza.
Ma se tutto si declina al soggettivo l’idea della liberazione nel mercato troverà meccanicamente risposte pronte, adeguate al sentimento di inappagamento percepito. L’emancipazione sarà prescritta dalle consuete ricette. Si dovrà investire con coraggio e a debito nelle proprie illusioni. Chi agirà razionalmente godrà di meritate ricompense. Didattica del sogno a occhi aperti.
David Harvey ha giustamente osservato che il capitalismo riuscì a dare una soluzione alla richiesta libertaria insita nella contestazione sessantottina. La libertà di agire illimitatamente negli interstizi dei mercati, nella loro impalcatura anti-gerarchica, nella promessa di affrancamento dai precetti del Padre, della Chiesa, dello Stato, dei sindacati e dei partiti. Il diritto ad avere diritti. Sempre nuovissimi.
L’epica o la “narrazione”, come amano dire i neo-sapienti dell’utilitarismo contemporaneo, gioca su un concetto ambiguo di libertà che non si libera più da qualcosa [“libertà da”, libertà negativa]. Segue sempre la traccia dell’espansione di sé [“libertà di”, libertà positiva]. Questa predisposizione alla libertà avrebbe sconfitto definitivamente uno dei pilastri della critica al capitalismo, l’alienazione.
L’individuo non può dirsi più alienato poiché sceglie gli investimenti che porteranno alla propria realizzazione ed eventualmente al proprio fallimento. Nessuno fa oggi ciò che non vuole fare. Di rimando nessuno può dichiararsi realmente sfruttato. L’opzione è l’auto-sfruttamento. Sei il padrone di te stesso. Corri, ama, investi, sballati, pensa ai risultati.
Quindi la popolazione si scanna ferocemente sulla promessa di libertà. Un vecchio motto, apripista nell’individualizzazione delle dinamiche sociali, ritrova dignità nel sentire comune. Il personale è politico. L’obiettivo è comune alle due fazioni. Tornare alla normalità. Ma è quella normalità a rappresentare il problema. A rendere l’alienazione invisibile ma sempre più schiacciante.

Miti d’oggi

October 13th, 2021 by dbpoff

Premessa

I testi che seguono sono stati scritti mese per mese nel corso di due anni, dal 1954 al 1956, dietro il richiamo dell’attualità. Tentavo allora di riflettere sistematicamente su alcuni miti della vita quotidiana francese. Il materiale di questa riflessione ha potuto essere molto vario (un articolo di giornale, una fotografia di settimanale, un film, uno spettacolo, una mostra), e il soggetto molto arbitrario: si trattava evidentemente della mia attualità.
Il punto di partenza di questa riflessione era il più delle volte un senso di insofferenza davanti alla «naturalità» di cui incessantemente la stampa, l’arte, il senso comune, rivestono una realtà che per essere quella in cui viviamo non è meno perfettamente storica: in una parola soffrivo di vedere confuse ad ogni occasione, nel racconto della nostra attualità, Natura e Storia, e volevo ritrovare nell’esposizione decorativa dell’«ovvio» l’abuso ideologico che, a mio avviso, vi si nasconde.
La nozione di mito mi è parsa sin dall’inizio render ragione di queste false evidenze; intendevo allora il termine in senso tradizionale. Ma ero già persuaso di una cosa da cui in seguito ho cercato di trarre tutte le conseguenze: il mito è un linguaggio. Così, occupandomi dei fatti in apparenza più lontani da ogni forma di letteratura (un incontro di catch, un piatto cucinato, una mostra di oggetti in plastica), non pensavo di allontanarmi da quella semiologia generale del nostro mondo borghese di cui avevo affrontato il versante letterario in saggi precedenti. E solo dopo aver osservato diversi fatti di attualità ho tentato di definire metodicamente il mito contemporaneo: testo che beninteso ho lasciato alla fine di questo volume in quanto non fa altro che ordinare sistematicamente materiali precedenti.

Scritti di mese in mese, questi saggi non tendono a uno svolgimento organico: il loro legame è di insistenza, di ripetizione. Perché non so se, come dice il proverbio, le cose ripetute piacciono, ma credo che almeno significhino. E quanto ho cercato in tutto questo sono delle significazioni. Saranno le mie significazioni? In altre parole, ci sarà una mitologia del mitologo? Indubbiamente, e il lettore vedrà da sé la mia scommessa. Ma veramente non penso che la questione si ponga proprio in questi termini. La «demistificazione», per usare ancora una parola che comincia a logorarsi, non è un’operazione olimpica. Voglio dire che non posso consentire alla tradizionale opinione che postula un divorzio di natura tra l’oggettività dello scienziato e la soggettività dello scrittore, come se uno fosse dotato di una «libertà» e l’altro di una «vocazione», ambedue atte a schivare o a sublimare i limiti reali della loro situazione: pretendo di vivere pienamente la contraddizione del mio tempo, che di un sarcasmo può fare la condizione della verità.

R. B.”

Roland Barthes. Mythologies, 1957, (trad. it. Miti d’oggi, Einaudi 1970), premessa introduttiva.

 

The Great Disruption | Fine o trionfo dell’astrazione – di Franco Bifo Berardi

October 7th, 2021 by dbpoff

 

Un testo di Bifo pubblicato il 6 ottobre su effimera. Toccante e significativo anche lo scritto precedente, Destino Manifesto, reperibile a questo link.

In Gran Bretagna mancano centomila camionisti per soddisfare i bisogni del mercato. Le merci scarseggiano nei negozi, file di auto per comprare la benzina. Negli Stati Uniti secondo il New York Times (Matt Phillips: Wall Street is obsessed with the price of used cars, October,1) il prezzo delle automobili usate cresce alle stelle perché la produzione di auto è paralizzata.

Durante la pandemia la gente ha preferito i trasporti individuali piuttosto che quelli pubblici. Ma la produzione di auto è stata ridotta, molte fabbriche hanno quasi interrotto la produzione per proteggere dal virus gli operatori, che lavorano in spazi molto ristretti. Inoltre la limitazione nelle forniture di chip elettronici, dovuta a limitazioni simili ha impedito ai produttori auto di tornare alla produzione normale per tutto questanno. Così i consumatori si sono fondati sul mercato dellauto usata catapultando i prezzi verso lalto.

Questi sono solo due degli innumerevoli esempi di un fenomeno che sta esplodendo, e non è solo effetto della pandemia, ma anche del caos sistemico che sta investendo il daily business of life in tutto il pianeta. Il caos della disintegrazione del ciclo globale delle merci, il caos geopolitico prodotto dalla simultanea disfatta afghana dell’Occidente e l’apertura di un nuovo fronte di guerra che punta a mettere sotto assedio la Cina.

Non si tratta di una crisi economica come quelle del secolo passato: non si tratta dell’esplodere di una crisi finanziaria che investe l’economia reale.

Al contrario finora i mercati finanziari godono di buona salute, e gli indici della ripresa post-Covid sembrano buoni in molti paesi, come l’Italia, anche se non siamo affatto in un’era post-Covid, perché il vaccino non sembra aver sconfitto il virus.

Sulla scena del mondo all’inizio del terzo decennio del secolo si svolgono in contemporanea due processi, per effetto della pandemia. Da un lato assistiamo al collasso dell’astrazione, alla perdita di controllo dell’astrazione sulla realtà concreta: un’entità materiale sub-visibile e proliferante ha mandato in tilt il sistema semiotico che sorreggeva l’economia globale.

Il virus è un’entità di confine tra sfera biologica e sfera informazionale. Il bio-virus perciò si è trasformato in un info-virus che ora agisce come psico-virus, infettando la mente collettiva.  L’astrazione finanziaria non ha potuto in alcun modo contenere governare o dissolvere gli effetti del virus, e non è in grado di agire sulle forme psichiche in cui la mutazione virale si manifesta.

Però allo stesso tempo assistiamo a un paradossale trionfo dell’astrazione: la sfera astratta della computazione e della finanza si separano in modo radicale dalla vita quotidiana e dal ciclo di produzione e distribuzione delle merci.

Due tendenze apparentemente incompatibili si manifestano al medesimo tempo: il ciclo globale della produzione è interrotto in molti punti, il caos si diffonde nella catena integrata della distribuzione (great supply chain disruption) la disoccupazione cresce, dovunque la società si impoverisce, il lavoro si precarizza, i salari scendono. Contemporaneamente però il sistema borsistico è caratterizzato da una tendenza al rialzo, e le grandi compagnie del ciclo digitale realizzano enormi profitti rafforzando il dominio dell’assenza sulla presenza.

Così si manifestano due tendenze in parallelo e in contrasto: l’astrazione è stata privata della sua potenza da una sub-visibile concrezione materica, da un virus che prolifera nel corpo sociale fino al punto di interrompere la compatibilità del corpo con l’automa. Al tempo stesso però l’astrazione accentua la sua indipendenza e la sua esteriorità rispetto alla vita sociale concreta. Non so se questa sconnessione schizofrenica sia destinata a durare a lungo, ma possiamo aspettarci che la più grande bolla finanziaria di tutti i tempi sia destinata a esplodere in qualche futuro.

Poiché l’astrazione – cioè il sistema interconnesso degli automatismi tecno-finanziari e dei flussi di informazione – diviene sempre più incapace di interagire con il collasso della materia organica, psichica e sociale possiamo aspettarci che a un certo punto l’intera macchina globale collassi, trascinando con sé la matematica di scambio astratto di nulla con nulla.

Mentre il profitto cresce, si disgregano le giunture della vita civile.

Great Supply Chain Disruption

Cerchiamo di vedere più da vicino il collasso del ciclo concreto della riproduzione sociale. La ripresa della domanda non dipende soltanto da fattori economici, né da un intervento finanziario, o dalle iniezioni di liquidità delle banche centrali che suscitano un’attesa quasi messianica a mio parere destinata a essere presto delusa. La ripresa della domanda dipende anche e soprattutto da scelte culturali, aspettative psicologiche, e in ultima analisi dall’oscillazione psichica che la pandemia ha provocato e che andrà dispiegando i suoi effetti patogeni nell’arco di un periodo molto lungo. L’astrazione tecno-finanziaria non ha presa sulla concretezza del biologico, e dello psichico.

Uno degli effetti dell’interruzione virale del cicli economici è il collasso della globalizzazione, che già era stata attaccata dal ritorno del nazionalismo. Negli ultimi tempi si manifesta un fenomeno completamente nuovo, almeno nelle dimensione attuali. Alcuni la chiamano Great Supply Chain Disruption: scoordinamento e rottura della sincronizzazione del ciclo globale di produzione e distribuzione di merci.

In un articolo dal titolo The world is still short of everything. Get used to it scrivono sul New York Times

Ritardi, mancanza di merci e prezzi crescenti continuano a incasinare gli affari grandi e piccoli. I consumatori si trovano a fare i conti con unesperienza che un tempo era rarissima: alcune merci non sono disponibili, e non si sa quando potranno ritornare. Di fronte a una prolungata mancanza di componenti elettroniche la Toyota ha annunciato il mese scorso di ridurre del 40% la produzione di auto. Le fabbriche in tutto il mondo stanno limitando le loro operazioni, nonostante la domanda di beni, perché non possono comprare parti meccaniche, plastiche e altri materiali grezzi. Le compagnie di costruzione pagano molto di più per avere materiali e sono costrette ad aspettare settimane e talvolta mesi per ricevere ciò di cui hanno bisogno. La Grande Interruzione della Catena di Fornitura è un elemento centrale dellincertezza straordinaria che continua a incastrare le prospettive economiche in tutto il mondo. Se queste interruzioni continuano nel prossimo anno si potrà determinare un aumento dei prezzi in ogni ambito del mondo delle merci. Il mondo sta così imparando una dolorosa lezione su come sono interconnessi i processi produttivi su grandi distanze.

Il fenomeno qui descritto è diverso dalle crisi del passato che riguardavano il rapporto tra sfera industriale e sfera finanziaria: si tratta qui di una sconnessione della catena fisica della produzione, un effetto di caos provocato dalla pandemia e rafforzato dal collasso geopolitico che dopo Brexit e trumpismo sta sconvolgendo l’ordine globale.

Un container che non può essere caricato a Los Angeles perché molti trasportatori sono in quarantena è un container che non porterà la soya in Iowa, lasciando in attesa i compratori in Indonesia e potenzialmente facendo scarseggiare il foraggio per animali in Asia del sud. Un blocco inatteso negli ordini di televisioni in Canada o in Giappone accentua la mancanza di chips per computer costringendo i produttori a rallentare le linee di produzione dalla Corea del sud alla Germania al Brasile. Non si vede una uscita da questa situazione dice Alan Holland, esecutivo di Keelvar, una compagnia che ha sede a Cork, irlanda, che produce software per il controllo di catene di produzione. Potrebbe durare a lungo.

Interessante, no? Per decenni il capitale ha garantito il funzionamento integrato della distribuzione globale, ha stimolato consumi per gran parte inutili e dannosi, e ha compensato la miseria esistenziale con una fornitura costante di merda consumistica. Ma ora questa compensazione si sta sgretolando. Il prezzo dei trasporti marittimi dagli USA ai paesi asiatici si è moltiplicato per dieci volte nell’ultimo anno, e dall’aprile del 2021 il prezzo del gas e dell’energia elettrica sta crescendo vertiginosamente in tutti i paesi europei. La sconnessione dei cicli globali si manifesta con effetti di caos nell’economia globale. Il capitalismo entra in una fase caotica dalla quale difficilmente potrà uscire usando le leve della finanza e dello stimolo monetario, perché questa situazione di caos dipende dalla sfera del concreto, dei corpi che si ammalano, delle menti che impazziscono, delle appartenenze che si svincolano dal globale.

Comincio a pensare che dovremo presto accorgerci di un fatto sconvolgente: il denaro, che le banche centrali si preparano a versare nel calderone delle economie occidentali, sta perdendo il suo fascino e la sua efficacia.

E possiamo immaginare per il futuro la formazione e la secessione concreta di comunità autonome che garantiscano l’alimentazione, la cura, e l’educazione. Comunità fondate sul principio dell’uguaglianza e della frugalità, sul primato dell’utile rispetto al denaro.

Europei a Americani stanno aspettando la salvezza dai trilioni di dollari e di euro che le banche centrali promettono di iniettare nel corpo agonizzante dell’Occidente. Ma il denaro non serve ad animare un corpo depresso, psichicamente fragile, e forse moribondo.

Scismogenesi vuol dire morfogenesi per separazione. Nascita di organismi autonomi da un insieme che è diventato tossico. Forse questa è la direzione in cui stiamo dirigendo.

Il problema è però se la soggettività sociale sarà in grado di esprimere autonomia, cosa che al momento appare abbastanza improbabile. Quel che prevale sulla scena è la depressione di una generazione precaria incapace di solidarietà soggettiva, e il panico di una popolazione ormai al limite della crisi di nervi non solo per l’interminabile pandemia.

Il New York Times del 1 ottobre pubblica con nonchalance un articolo che appare come un appello al panico: Ready to go, in case of disaster

Sottotitolo: emergencies may call for evacuation. Prepare your essentials in advance.

Ai cittadini di ogni parte del mondo l’autorevole quotidiano consiglia di preparare una borsa con le cose indispensabili in caso di evacuazione, di metterci dentro vestiti per una settimana, qualcosa di caldo e qualcosa di impermeabile. I documenti indispensabili, il passaporto, le ricette con le medicine indispensabili, tutti i medicinali che potrebbero servirvi, coke dei documenti assicurativi. E anche una tanica di benzina e un po’ di cibo. E naturalmente una collezione di maschere, guanti sanitari. Caricatori per il cellulare, pile, una lampada. Ah, dimenticavo, anche qualche barretta di cioccolato.

https://www.nytimes.com/2021/08/30/business/supply-chain-shortages.html

https://edition.cnn.com/2021/09/29/business/supply-chain-workers/index.html

Dis/connessioni ed Elezioni. Alcune note e un saluto

October 7th, 2021 by dbpoff

“La terra reagisce alle azioni dell’uomo, la terra non ha un’anima”, dice quel professor ingegnere che si segue sul divano, mentre si lancia in una digressione (“più o meno divagazione sul tema”) sugli esiti catastrofici del surriscaldamento del geoide terrestre, con fuori i primi freddi che sopraggiungono, il cielo bianco lattiginoso che profuma di silenzio e porta con sé incrollabili fragilità esistenziali, chiede silenzio e finisce frantumato in una barcamenata di banalità che sgorgano dal dispositivo/palla al piede del detenuto: in qualsiasi momento, abusando del suo presunto potere, egli può dire “quelli da casa scrivano il loro nome adesso”, al fine di dimostrare la loro presenza nell’adesso richiesto. Ma fra poco finisce, come tutte le cose.

1. È già giovedì!, direbbe qualcuno, e lunedì è passato portandosi dietro alcune cose che sono successe e in qualche modo significheranno, più sul possibile futuro, sul presente che sarà – posto che il futuro oggetto del lavorìo della tecnica è inconoscibile, immutabile nella sua razionale programmaticità, scriverebbe Ellul pressappoco; le elezioni in certe città fra cui Bologna (“la città più progressista d’Italia”), l’irraggiungibilità del trittico delle piattaforme di Zuck – nonché delle dichiarazioni di quell’ex-dipendente, che ci interessa meno in ragione della contingenza della circostanza (e non sarà oggetto d’approfondimento di questo piccolo scritto) – dalle cinque e mezza a mezzanotte e mezza, pressappoco, almeno in quest’angolo del mondo: i messaggi su whatsapp non si spedivano, la home di fb non si caricava e tutti quelli che conosciamo perché esistono dentro lo schermo di insta… spariti nel nulla. È un evento particolare [era successo il 19 marzo scorso per un’ora, e prima il 13 marzo 2019 – il blackout più lungo (circa un giorno) scrive repubblica], per tante ragioni. Il rapporto fra il reale e il virtuale, la stabilità del virtuale e la relativa conseguente instabilità precarietà, la significanza in senso lato delle implicazioni individuali quanto sociali, la possibilità che un giorno riaccada e lo spegnimento dilaghi ad altri siti e l’epidemia di cecità che allora colpirebbe baluardi, componenti essenziali nel nostro modo di concepire e pensare internet oggigiorno. S’è detto tante volte – spesso banalizzando, o comunque in questo modo evitando di approfondire altro, qualcosa di nuovo – che facebook non è internet, (e google anche), non s’è detto: un giorno può saltare l’uno, un giorno può saltare l’altro. E se salta teams e le lezioni online? E se salta google per davvero? E se saltano quelli che per mancanza d’alternative credibili continuiamo – qui, almeno, per un altro po’, ma prima o poi approderemo a “meglio di così” – a chiamare media, quei siti d’informazione che danno una forma alla popolazione di questa fascia di mondo? Se salta chi informa i fatti sui fatti?

Come detto, le questioni e le implicazioni sono svariatamente variegate, tristemente molteplici [torneremo sul concetto di molteplicità ben presto e una disposizione altrimenti altra, senz’altro, per fortuna], e per adesso ci limitiamo a metterne un poco a fuoco due, rigorosamente in forma “di bozza”, in itinere. La prima riguarda l’effettiva stabilità materiale delle piattaforme: a fine gennaio 2018, al WEF di Davos, Soros si riscopriva un paladino democratico e le descriveva come un “ostacolo all’innovazione” e allo sviluppo del mercato e della concorrenza, in ragione delle loro tendenze monopolistiche, nonché (circa) ‘come danno per la tenuta della democrazia, minaccia per la libertà di pensiero individuale’ et similia; infine dichiarava ad esse battaglia sul piano fiscale:

“[…] È solo una questione di tempo prima che si rompa il dominio globale dei monopoli statunitensi sulle tecnologie dell’informazione”

Fine gennaio 2018. Ormai quattro anni dopo, il lockdown informatico d’una parte importante della comune concezione dell’internet mostra una discreta quantità di polvere sotto il tappeto, fantasmi e scheletri che – una volta di più – rendono la riflessione sulla tecnica d’una attualità scottante. Questo soprattutto perché all’antipodo della vicenda, al vertice del cucuzzolo l’intraprendente Zuck parla e pensa – immagina – nei termini di Metaverso [consigliato è quest’interessante articolo di Ryan Zickgraf che introduce alla questione]. Se da un lato il “farsi oscuro” delle tre giganti piattaforme può esser interpretata – a seconda del punto di vista, nonché dell’occhio di chi guarda – come un guasto o come una guerra in corso fra grossi (grossi grossi) possessori di capitali, altrettanto distopico e attualmente oscuro – in quanto se ne sa poco e soprattutto poco si immagina – è l’orizzonte in direzione e in funzione del quale opera e ragiona il precursore del social network di massa, concettualmente all’incirca un “Internet incarnato, [nel quale] invece di visualizzare i contenuti, ci sei dentro”. Il passo più interessante è il parallelismo con Snow Crash, romanzo di Neal Stephenson del 1992 dal quale lo stesso termine “metaverso” è mutuato. In sostanza, con la linea di demarcazione fra il reale e il virtuale che sfuma sempre più fino a farsi un dettaglio accessorio (l’autore cità l’iperrealtà teorizzata da Baudrillard, quando “realtà e simulazione si fondono così perfettamente che non c’è una chiara separazione tra i due mondi”), compare la categoria dei gargoyle, esseri che

“Non finiscono mai una frase. Sono alla deriva in un mondo disegnato a laser, scansionano retine in tutte le direzioni, controllano chiunque si trovi nel raggio di un migliaio di metri, vedono tutto contemporaneamente alla luce visiva, agli infrarossi, al radar a onde millimetriche e agli ultrasuoni.” [dal romanzo di Stephenson, citato nell’articolo]

Sono quella categoria vagamente postumana che finisce con l’aderire acriticamente e ciecamente ad ogni dettame votato all’innovazione, al progresso, al dominio della tecnica sull’essere umano. L’uomo è l’essere sacrificabile [homo sacer] immolato (“votato”) sull’altare del capitale.  Verrà il giorno d’uno scontro definitivo e costituente fra gli aderenti – che allora saranno necessariamente utenti/adepti – e la nuova resistenza dei “rimasti umani”? Non ci resta che vivere e stare a vedere.

2. Le elezioni. Non mi va di scrivere granché, così incollo questo testo preso dal profilo fb di Davide Blotta – in allegato stanno alcune toccanti fotografie che consiglio ai curiosi. Non c’è poi tanto da aggiungere, si potrebbe, ma magari un’altra volta.

2015 Sgombero di Ex Telecom (280 persone, 100 minori)
2015 Sgombero di Atlantide
2016 Sgombero delle famiglie dello stabile di Via de Maria
2017 Sgombero Galaxy (31 Famiglie)
2017 Sbombero O.Z. Il più grande skatepark indoor d’Europa. Postazione preferita di B.U.M (Bologna Underground Movement). Ora fa parte dell’Unipol.
2017 Sbomberi di Labas e Crash! Eseguiti nella stessa ora, alle 6 del mattino di martedì 8 Agosto. Una mossa da veri leoni. Labas prenderà una cantonata talmente forte da non riprendersi mai più. Oggi infatti è una parrocchia. Ah, fino a poco tempo fa ti davano i sacchetti dell’umido.
2019 Sgombero di Crash!
2019 Sgombero di XM24 avvenuto alle 5 di mattina del 6 Agosto. La giunta PD ha la simpatica idea di impiegare una ruspa per cacciare via gli attivisti. Era il periodo in cui scimmiottare Salvini ti faceva vincere qualche consenso alla briscola del Pontelungo.
Gli attivisti rimangono sui tetti, c’è chi si lega in piscina, c’è chi si appende al soffitto. Si fa avanti un certo Lepore, un ragazzone come lo chiamano quelli dell’Estragon (Estragon, a dire la verità nessuno si ricorda più di voi. Sarà che non ascolto più i Green Day ma nella mia testa eravate sepolti. Una cosa mi ricordo, a 16 anni mi faceste pagare 4 euro l’acqua nel vostro locale. Spero riapriate presto) Lepore promette agli attivisti che se fossero scesi avrebbe firmato seduta stante l’impegno ad assegnare a Xm24 una nuova casa. Lepore non era il rappresentate di classe della 5b, Lepore, come da ultimi 10 anni, ha l’incarico su Cultura e Turismo di questa città. Attenzione, il personaggio lo conoscevamo. Prima di allora si era infatti presentato con l’idea di salvare i muri esterni del centro sociale perché gli piacevano i graffiti. Grazie, rispondemmo, che ne pensi della piscina invece?. Alla fine della storia propose di istituire un museo della Bologna punk con quegli stessi muri. Sarà perché gli anarchici non vanno matti per i musei, specie se sono loro le opere gratuite, ma la proposta fu accolta con la cancellazione dei graffiti e con la comunicazione scritta di quel che loro pensavano dell’intera idea: all’inizio si optò per scrivere vaffanculo, poi la maggioranza votò per una scritta di 30 metri che recitasse ‘questo cohousing è una cagata pazzesca’. Museo rovinato, la scritta è ancora lì.
Qualche mese più tardi il posto che viene assegnato a Xm24 si trova nei pressi di Imola, non ha l’attacco della luce e si può raggiungere solo a piedi. Frequentavo XM in quel momento e mi ricordo che il posto offerto non piacque molto.
2020, Febbraio. Nella notte ricevo una telefonata. Finisco di lavorare e mi reco all’Excaserma Sani. Fotografo lo sgombero della palazzina che è ancora buio.
Con l’eccezione dell’ex Telecom, in tutti questi posti sgomberati ora ci fanno le assemblee i topi. Alcuni vengono anche da fuori.
L’ex Telecom è il mirabile esempio di quello che oggi definiamo lessicalmente come baratro. Uno studentato che vende camere doppie a 600€. È felicemente abitato da un gruppo di ragazzotti bianchi panna che amano sputare in testa ai passanti e agli attivisti contrari allo sviluppo del lusso in un quartiere povero.
2021 Apre Dumbo, ovvero un capannone. Viene chiamato oggi il centro sociale di Matteo Lepore. In questo capannone aperto con soldi pubblici si può ascoltare tranquillamente un concerto di Jennifer Lopez ma attenzione a farsi venire sete perchè altrimenti devi pagare l’acqua. Ripeto, devi pagare l’acqua. In altenativa ci sono dei simpatici drink, o meglio delle poltiglie colorate, a 9 euro l’uno. Non ti preoccupare, accettano anche carte di credito: mai esistito un capannone così comodo.
Non mi importa nulla delle elezioni, non mi importa nulla di chi votate, vi considero amici come il primo giorno che vi ho conosciuto. Sono molto triste, questo sì.
Abito da 24 anni nel quartiere Reno, un agglomerato urbano di tipo popolare costruito in seguito all’immigrazione dei meridionali nella periferia ovest di Bologna. Ora siamo meridionali, indiani, pakistani, cinesi, rumeni. Conviviamo bene e ci somigliamo un po’ tutti. Nel mio quartiere ci sono più compro oro che fermate del bus. Parliamoci chiaro, ne abbiamo parecchie di fermate di bus qui. Chi va a fare colazione nei nostri bar può assaggiare il cornetto inzuppato alle tonnellate di anidride carbonica della via Emilia. Ci sono parecchie slot machine. Mi ricordo che quando andavo in centro da piccolo mi chiedevo perchè lì mancassero, e mi sembravano un po’ sottosviluppati quelli di saragozza che non avevano neanche un posto in cui giocare ai cavalli. Ecco, da noi almeno si può scegliere, ci si può ammalare di gioco d’azzardo oppure di cancro per via delle polveri sottili. Ecco, secondo me Sartori è del quartiere Saragozza perchè a noi questa idea del frisbee, io ho provato a fare mente locale, non ci è mai venuta in mente. E’ per questo motivo che non posso sopportare il nostro futuro assessore alla cultura, ho un problema di circoscrizione.
A questo punto, governate, fate quello che volete. Ma non interessatevi più di noi, non interessatevi più di cultura, storia e società. Costruite questo benedetto campo da fresbee, costruite tutte le fiere del cibo che volete ma lasciateci in pace. Lasciate stare i poveri. Noi non sappiamo che farcene di voi e voi non sapete che farvene di noi.
Chiedo scusa se ho ferito qualcuno/a, sarà che oggi non mi sento molto super.

(dal profilo di Davide Blotta)

Per oggi può bastare così. Per chi non ne avesse abbastanza, un articolo su zero dal titolo “L’insostenibile leggerezza dell’eventificio Bologna”: un’altra questione urgente.

[ps. queste riflessioni frammentate sono dedicate a Jamil, il palestinese di al Salam di via 100300 che a fine settembre se n’è andato da questa terra, presumibilmente in un posto migliore; ricordo un paio di belle chiacchierate, in quei casi era sempre Gio che aizzava la conversazione. Mi rendo conto adesso del dono prezioso di quei momenti, che non torneranno, sperimento un’impotenza disarmante e mi consolo al pensiero d’una flebile manciata di ricordi belli. Arrivederci, signor Jamil venuto dalla Palestina]

Grammatica demografica

September 28th, 2021 by dbpoff

“La mia realtà mi elimina, non dite che è colpa mia”
Smart Cops, Realtà Cercami, 2012

“Ascoltando” la lezione di demografia sociale di giovedì mattina, registrata su Panopto e gentilmente resa fruibile dalla prof che, per far lezione, pendola ogni volta fra Milano e Bologna – e ritorno. Per leggere delle slides che introducono alla terminologia della materia. Senz’altro noiosa, indubbio, ma c’è qualcosa di più, o almeno – in qualche modo – pare trasparire qualcosa di altro. Ogni cosa è detta come non potesse essere altrimenti, e un filo sottile come lega la noia che suscita e l’accettazione della sua naturale ovvietà: le generalizzazioni frequenti, la tendenza ad assolutizzare, la lingua si schiaccia e s’appiattisce mostrandosi come al servizio dei dati. La voce dell’insegnante, estremizzando, pare poco più che il collante che unisce i puntini incolonnati che puntellano ciascuna slide, ché del resto legge le parole già dette, già scritte sulla slide. Non c’è sorpresa, non c’è veramente qualcosa di più, qualcosa in più.

Tante questioni corollarie possibili contornano questa frequenza a-sincrona e forzosa che il piano di studi impone anche a chi, potesse, non sarebbe qui [ma poi, qui dove?]. Ritorneranno…

La graduale scomparsa dei tempi (congiuntivo, passato semplice, imperfetto, forme composte del futuro, partecipa passato…) dà luogo a un pensiero al presente, limitato al momento, incapace di proiezioni nel tempo.
La generalizzazione del tu, la scomparsa delle maiuscole e della punteggiatura sono altrettanti colpi mortali portati alla sottigliezza dell’espressione.
Cancellare la parola ′′ signorina ′′ non solo è rinunciare all’estetica di una parola, ma anche promuovere l’idea che tra una bambina e una donna non c’è nulla.
Meno parole e meno verbi coniugati sono meno capacità di esprimere le emozioni e meno possibilità di elaborare un pensiero.
Studi hanno dimostrato che parte della violenza nella sfera pubblica e privata deriva direttamente dall’incapacità di mettere parole sulle emozioni.
Senza parole per costruire un ragionamento, il pensiero complesso caro a Edgar Morin è ostacolato, reso impossibile.
Più povero è il linguaggio, meno esiste il pensiero.
La storia è ricca di esempi e gli scritti sono molti di Georges Orwell in 1984 a Ray Bradbury in Fahrenheit 451 che hanno raccontato come le dittature di ogni obedienza ostacolassero il pensiero riducendo e torcendo il numero e il significato delle parole .
Non c’è pensiero critico senza pensiero. E non c’è pensiero senza parole.
Come costruire un pensiero ipotetico-deduttivo senza avere il controllo del condizionale? Come prendere in considerazione il futuro senza coniugare il futuro? Come comprendere una temporanea, un susseguirsi di elementi nel tempo, siano essi passati o futuri, nonché la loro durata relativa, senza una lingua che distingua tra ciò che sarebbe potuto essere, ciò che è stato, ciò che è, cosa potrebbe accadere, e cosa sarà dopo che ciò che potrebbe accadere? Se un grido di raduno dovesse farsi sentire oggi, sarebbe quello rivolto a genitori e insegnanti: fate parlare, leggere e scrivere i vostri figli, i vostri studenti, i vostri studenti. Insegna e pratica la lingua nelle sue forme più svariate, anche se sembra complicata, soprattutto se complicata. Perché in questo sforzo c’è la libertà. Coloro che spiegano a lungo che bisogna semplificare l’ortografia, scontare la lingua dei suoi ′′ difetti “, abolire generi, tempi, sfumature, tutto ciò che crea complessità sono i becchini della mente umana. Non c’è libertà senza requisiti. Non c’è bellezza senza il pensiero della bellezza “.

(C. Cleave, trovata per caso, in giro sul web)

Pensieri durante lezione

September 24th, 2021 by dbpoff

Murati fra i meandri d’uno schermo, segregati in casa (“come sorci”) e relegati ad una solitudine che non può dirsi altro che assoluta, gli studenti che seguono “a distanza” guardano, soli e sconsolati, l’aula nella quale quelli presenti in loco socializzano, cominciano a conoscersi nei momenti di pausa, quando la lezione s’interrompe ma la videocamera che riprende un ampio scorcio della stanza lascia intravedere – ma non sentire, se non in modo sconnesso e comunque incomprensibile – qualcosa dal quale quelli lontani sono inevitabilmente, inesorabilmente esclusi. La lezione è una merda, molto più delle altre, e forse è per questo che dura quattro ore invece che due. In classe c’è meno gente di quella che potrebbe starci, la capienza s’è fatta un fatto politico, una decisione arbitraria come un’altra, e chi presenzia, oltre al marchio fedeltà deve rispettare le regole precedenti, che non se ne sono mai andate: la maschera, la prenotazione preventiva, l’esibizione del lasciapassare, segnarsi di qua, confermarsi di là, “essere responsabili”. Chi è a casa è meno sotto pressione, da questo punto di vista, ma al contempo è solo, del tutto e in tutto solo. Può ridere delle stronzate che dice il prof, può sentirle come un ronzio di sottofondo standosene in mutande e tenere i piedi sulla scrivania, può violare quelle norme sociali – quelle vecchie, di costume, e quelle nuove, ugualmente di costume ma ben più repressive, e questo essenzialmente per un motivo prima degli altri: perché non è visto. Non vi è certezza di ciò, certo, e senz’altro non se “sceglie” (ancor più paradossale: “decide”) di tenere accesa la videocamera del terminale da cui tenta, in un modo abietto, d’esser presente a ciò che avviene in un altrove che magari conosce e brama, ma che ciononostante gli è precluso. Vita è vedere ma al contempo ‘esser visto’, l’intriseca – e per molti, inconsapevole – consapevolezza (o speranza, o ambizione) di esser guardati da qualcuno. Cambia l’intensità a seconda degli ambiti e delle circostanze, cambiano le aspirazioni a seconda degli abiti e delle sensazioni, ma quel sottile velo di guardabilità, che potremmo dire possibilità d’essere guardati… è essenza di vita, oggigiorno. Lo era per i greci, lo è per noi di oggi, sebbene filtrati e immortalati in una miriade di scatti e ritocchi, didascalie e velleità. E’ questo un elemento sostanziale che i social strumentalizzano e cannibalizzano (oltre altri concetti secolari come l’amicizia e il piacere, certo; non è questo il momento), è su questo tasto dolente, al contrario, che s’opera la leva di quest’inumana discriminazione ricoperta d’una patina di verde e d’un’altra di carattere pseudo-sanitario. Chi non è presente è un pallino e un nome, se non inserisce una foto di sè, e questo frustra prima di tutto sé stesso, invisibile agli occhi degli altri.

Alle 12.17, al finir della pausa, il professore – un ingegnere senza ingegno, verosimilmente un idiota – esorta quelli “da casa” a scrivere nome e cognome in chat, seduta stante, affinché anch’essi mostrino d’esserci, d’essere dinnanzi lo schermo, e poco importa se seguono, se sono sdegnati o annoiati, dove effettivamente sono: ciò che conta è che sentano l’ordine impartito ed eseguano, obbediscano. Lo scrivo, le iniziali in minuscolo, e subito penso di scrivere a Sara, che so che è in classe, un messaggio su whatsapp: “ora capisci cos’è la biopolitica?”, ma demordo quasi subito, perché so che non capisce e non capirebbe, forse un giorno capirà, ma magari pure mai, ed eppure tante volte sarà più felice di me.

L’obbedienza non è più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, attaccava quel prete di Barbiana a metà anni sessanta che ben presto dio capitale ha fagocitato come ogni altra cosa, compreso il nostro immaginario, il nostro onirico, il nostro intero orizzonte di pensiero: prima di lui tanti altri, tutti già passati altrove, “tutta gente che aveva capito”, canterebbe Faber. Eppure la cieca obbedienza è troppo tentante, allettante, troppo conveniente per troppo e per troppi. L’ho detto e lo penso tuttora, diventare grandi significa fare ciò che ci conviene e smettere di problematizzare ciò, più di tanto. Gran parte delle volte significa obbedire ciecamente, anestetizzare la volontà e il senso critico e obbedire, fare ciò che ci è comandato. Quelli che disubbidiscono, che puntano i piedi e fanno attrito e resistenza sono un po’ come quei bambini che da piccoli vedevano il bulletto che se la prendeva con qualcuno e avevano paura di (re)agire, mettersi in mezzo e difendere il malcapitato di turno, e così se ne stavano in disparte e si sentivano in colpa per quel loro essere felloni, ma pure – col tempo, granelli di sabbia sedimentati nell’inconscio – sentivano crescere dentro l’odio (quasi ingiustificato, quasi, paradossalmente) verso i prepotenti. Oggi questa razza di ex bambini in via d’estinzione si ostina a non voler ubbidire a uno stato prepotente e villano, mentre tutti gli altri, tornati un po’ bambini, ubbidiscono ora come allora e sguazzano nei loro privilegi ritrovati: consumare al ristorante, consumare al tavolo, consumare sé stessi – mostrandosi però rigorosamente felici e presi bene – verso un baratro sempre più scuro. Lo stato li tratta da bambini, gli dice cosa possono fare e cosa no, come devono vestirsi e come coprirsi il volto, ne irride la dignità e li scannerizza come i polli sul rullo del supermercato, li fa codice e li passa allo scanner.

In coda alla cassa, ieri, aspettavano pazienti il loro turno per barattare il cibo necessario a farsi sazi – e quindi sopiti – per una settimana in cambio d’un corrispettivo in denaro – che poi è un corrispettivo in tempo, quello impiegato a “guadagnarselo”, lavorando e quindi sudando o no, a seconda del tasso del privilegio di ciascuno: oggi invece, ugualmente pazienti ma ben più sottomessi, aspettano sul rullo al fine di essere ammessi al supermercato di turno (lo spazio dove consumeranno – vedi sopra, o lo spazio culturale come il teatro o l’università, pur sempre un teatro, o meglio un palcoscenico, seppur almeno in parte diversamente snob). Una volta ammessi – a discrezione del dispositivo di controllo, rigorosamente – consumeranno e saranno consumati, brinderanno al contrario della salute per chi manca e, come sempre, pagheranno due volte in tempo quel bisogno di sentirsi inclusi e visti.

In certi momenti è difficile resistere, tirare avanti, ma poi passa, la lezione finisce e ritorna il silenzio, il sole brilla, la brezza soffia sulle cose, i colori risplendono e lo schermo tace. E torna la quiete, un po’ alla volta, il rancore e la superbia si sciolgono scaldati dal sole, una bozza di sorriso bonario torna a solcarmi il volto, timido: scrivere è pur sempre un atto liberatorio, se scinto dal giogo della produzione e scevro dall’idea d’un qualsiasi compenso. Non c’è verso di vincere questa guerra – noi Comunardi non stiamo combattendo, del resto, oggi come tanti anni fa, noi vorremmo (o meglio: vogliamo) solo vivere, camminando verso un mondo più bello – o almeno, un pizzico più sensato di questo.

Chiudono le parole di G. Anders da “L’uomo antiquato”, 1956, ben attuali per questi tempi tristi. Alla prossima

“Per soffocare in anticipo ogni rivolta, non bisogna farlo in modo violento. I metodi come quelli di Hitler sono superati. Basta creare un condizionamento collettivo così potente che l’idea stessa di rivolta non verrà nemmeno più in mente agli uomini. L’ideale sarebbe formattare gli individui fin dalla nascita limitando le loro abilità biologiche innate. In secondo luogo, si prosegue il condizionamento riducendo drasticamente l’istruzione, per riportarla ad una forma di inserimento professionale. Un individuo ignorante ha solo un orizzonte di pensiero limitato e più il suo pensiero è limitato a preoccupazioni mediocri, meno può ribellarsi. L’accesso alla conoscenza deve diventare sempre più difficile ed elitario, il divario tra il popolo e la scienza deve aumentare, l’informazione destinata al grande pubblico anestetizzata da qualsiasi contenuto sovversivo.
Soprattutto niente filosofia. Ancora una volta bisogna usare persuasione e non la violenza diretta: attraverso la televisione si diffonderanno intrattenimento lusinghiero, sempre più lusinghiero, emotivo o istintivo. Occuperemo gli spiriti con ciò che è inutile e divertente. È buono, in una chiacchierata e in una musica incessante, impedire che la mente pensi. Metteremo la sessualità in prima fila tra gli interessi umani, come tranquillante sociale non c’è niente di meglio.
Si farà in modo di bandire la serietà dell’esistenza, di girare in derisione tutto ciò che ha un valore elevato, di mantenere una costante apologia della leggerezza, in modo che l’euforia della pubblicità diventi lo standard della felicità umana e il modello della libertà. Il condizionamento produrrà così da sé una tale integrazione, che l’unica paura – che bisognerà mantenere – sarà quella di essere esclusi dal sistema e quindi di non poter più accedere alle condizioni necessarie per la felicità.
L’uomo di massa, così prodotto, deve essere trattato come quello che è: un vitello, e deve essere sorvegliato come deve essere un gregge. Tutto ciò che permette di addormentare la sua lucidità è socialmente buono, ciò che minaccia di svegliarlo deve essere ridicolizzato, soffocato, combattuto. Qualsiasi dottrina che metta in discussione il sistema deve prima essere designata come sovversiva e terroristica e chi la sostiene dovrà poi essere trattato come tale.”

Bozza per una dichiarazione d’intenti

January 27th, 2021 by dbpoff

Prima nota. Questo sito poco ambizioso gestito da un anonimo disertore nasce in seguito alla soppressione d’un sito analogo, altrettanto anonimo ed insignificante, differente in quanto posto sotto il gioco del dominio commerciale. Poco frequentato dallo scrivente come da quella manciata di lettori infedeli, dei quali chi pesta le dita sulla tastiera non sentirà la mancanza, benché provi per loro un affetto ineluttabile, in quanto – forse a torto – da qualche parte nell’intimo considerati alla stregua di amici, quel sito si proponeva alcuni scopi ambigui e pretenziosi che fanno parte della boria di tutti, forse, o quasi, un’affermazione sottile, l’ambizione se non dell’autorità – giammai, forse dell’autorevolezza della parola, dell’opinione valevole e valente. Impresa più che ardua, non solo perché, dati i numeri (di blog, e siti, e dividui virtuali) che popolano l’infoweb, emergere richiede un lavoro schiavile e certosino, ma per di più, attraverso l’anonimato! Ricercare il seguito anelando l’anonimato, o forse al contrario, comunque sia, si tratta d’un’esperienza – e d’un esperimento – ufficialmente fallito e fallimentare.
E perché questo? Per un paio di ragioni difficilmente circoscrivibili in maniera comprensibile, ma pur vale un tentativo (è gratis, del resto). Il primo giace nel nome, this earth or?, questa Terra oppure? Prima di tutto, questo sito nasce come cassa di (bassa) risonanza di ciò che abbiamo un gran bisogno oggi più che mai, quella materia strana che è possibile definire “geografia critica”, d’ora in poi anche soltanto critica. Perché e cos’è la geografia critica? In una battuta, è la messa in discussione dei presupposti sui quali si fonda il nostro – molto spesso vacuo – ragionamento. La geografia banale, borghese, quella materia scontata che si confonde con la cartografia e da la forma al mondo dei nostri pensieri, disciplina per antonomasia della colonizzazione del pensiero, che plasma il mondo-mosaico fatto in stati differenti fra loro ed omogenei al loro interno (il potere appianante del confine), la vidimazione implicita dell’adesione – e quindi l’assoggettamento – al potere costituito, l’abdicazione preventiva alla possibilità di un contropotere costituente, se non un antipotere. La geografia, questa – quella scontata delle capitali e del “confine come metodo” – è il principale strumento di soggiogamento, geografia del capitale; l’altra, un’altra, quella critica, è forse l’unica possibilità che abbiamo per rifuggire una vita da schiavi. Certo, quest’altra è un’anticamera dell’anarchia, che del resto è ciò che più somiglia alla democrazia dei greci tanto millantata nel chiacchiericcio pseudopolitico quotidiano. La prima intenzione è quindi quella, disertando questa concezione della Terra, di fornire argomentazioni plausibili a un’altra possibile, se c’è, ancora non lo so per certo. Per fare questo, idealmente formando un bel fronte unitario anticapitalstatale (me la ghigno a più non posso), c’è bisogno di consumare le suole e “mappare” le traiettorie per altre possibili geografie del conflitto. C’è bisogno di decolonizzare l’immaginario, pervaso di realismo capitalista ma andato ormai oltre, al di là di quello che era agli albori della globalizzazione, e vedere che si può fare, se un altro modo di concepire il conflitto è possibile. Anche diario di viaggio, quindi, considerazioni politiche, in quella che sarà la categoria traiettorie. Infine, un interesse personale, lo studio – certo non analitico, più esperienziale – dei mutamenti nella percezione del pensiero, del recepire la realtà che ci circonda, come le tecnologie effettuano il nostro vivere quotidiano, modificazioni genetiche in corpi vivi, per capire se e quando l’umanità sarà estratta dall’uomo, e come. E se è possibile resistervi, se sarà possibile scegliere fra apocalisse o rivoluzione o se l’una investirà l’altra e si faranno un tutt’uno del dominio imperante della violenza cognitiva. Queste considerazioni confuse saranno nella categoria momentaneamente nominata percezioni, ma magari pensieri, chissà. Ecco tutto (e ti pare poco?). Se qualcuno legge, non so bene, e vuole approfondire, consiglio “Le metafore della terra” di Giuseppe Dematteis (feltrinelli, 1985) o “L’invenzione della terra” di Franco Farinelli (sellerio, 2006), entrambi reperibili su libgen. Per questioni varie l’indirizzo connesso  a questo spazio digitale, dbpoff@autistici.org. Ci capito poco spesso, preventivamente: una risata ci seppellirà.