Archive for the ‘Appunti a distanza’ Category

Dis/connessioni ed Elezioni. Alcune note e un saluto

Thursday, October 7th, 2021

“La terra reagisce alle azioni dell’uomo, la terra non ha un’anima”, dice quel professor ingegnere che si segue sul divano, mentre si lancia in una digressione (“più o meno divagazione sul tema”) sugli esiti catastrofici del surriscaldamento del geoide terrestre, con fuori i primi freddi che sopraggiungono, il cielo bianco lattiginoso che profuma di silenzio e porta con sé incrollabili fragilità esistenziali, chiede silenzio e finisce frantumato in una barcamenata di banalità che sgorgano dal dispositivo/palla al piede del detenuto: in qualsiasi momento, abusando del suo presunto potere, egli può dire “quelli da casa scrivano il loro nome adesso”, al fine di dimostrare la loro presenza nell’adesso richiesto. Ma fra poco finisce, come tutte le cose.

1. È già giovedì!, direbbe qualcuno, e lunedì è passato portandosi dietro alcune cose che sono successe e in qualche modo significheranno, più sul possibile futuro, sul presente che sarà – posto che il futuro oggetto del lavorìo della tecnica è inconoscibile, immutabile nella sua razionale programmaticità, scriverebbe Ellul pressappoco; le elezioni in certe città fra cui Bologna (“la città più progressista d’Italia”), l’irraggiungibilità del trittico delle piattaforme di Zuck – nonché delle dichiarazioni di quell’ex-dipendente, che ci interessa meno in ragione della contingenza della circostanza (e non sarà oggetto d’approfondimento di questo piccolo scritto) – dalle cinque e mezza a mezzanotte e mezza, pressappoco, almeno in quest’angolo del mondo: i messaggi su whatsapp non si spedivano, la home di fb non si caricava e tutti quelli che conosciamo perché esistono dentro lo schermo di insta… spariti nel nulla. È un evento particolare [era successo il 19 marzo scorso per un’ora, e prima il 13 marzo 2019 – il blackout più lungo (circa un giorno) scrive repubblica], per tante ragioni. Il rapporto fra il reale e il virtuale, la stabilità del virtuale e la relativa conseguente instabilità precarietà, la significanza in senso lato delle implicazioni individuali quanto sociali, la possibilità che un giorno riaccada e lo spegnimento dilaghi ad altri siti e l’epidemia di cecità che allora colpirebbe baluardi, componenti essenziali nel nostro modo di concepire e pensare internet oggigiorno. S’è detto tante volte – spesso banalizzando, o comunque in questo modo evitando di approfondire altro, qualcosa di nuovo – che facebook non è internet, (e google anche), non s’è detto: un giorno può saltare l’uno, un giorno può saltare l’altro. E se salta teams e le lezioni online? E se salta google per davvero? E se saltano quelli che per mancanza d’alternative credibili continuiamo – qui, almeno, per un altro po’, ma prima o poi approderemo a “meglio di così” – a chiamare media, quei siti d’informazione che danno una forma alla popolazione di questa fascia di mondo? Se salta chi informa i fatti sui fatti?

Come detto, le questioni e le implicazioni sono svariatamente variegate, tristemente molteplici [torneremo sul concetto di molteplicità ben presto e una disposizione altrimenti altra, senz’altro, per fortuna], e per adesso ci limitiamo a metterne un poco a fuoco due, rigorosamente in forma “di bozza”, in itinere. La prima riguarda l’effettiva stabilità materiale delle piattaforme: a fine gennaio 2018, al WEF di Davos, Soros si riscopriva un paladino democratico e le descriveva come un “ostacolo all’innovazione” e allo sviluppo del mercato e della concorrenza, in ragione delle loro tendenze monopolistiche, nonché (circa) ‘come danno per la tenuta della democrazia, minaccia per la libertà di pensiero individuale’ et similia; infine dichiarava ad esse battaglia sul piano fiscale:

“[…] È solo una questione di tempo prima che si rompa il dominio globale dei monopoli statunitensi sulle tecnologie dell’informazione”

Fine gennaio 2018. Ormai quattro anni dopo, il lockdown informatico d’una parte importante della comune concezione dell’internet mostra una discreta quantità di polvere sotto il tappeto, fantasmi e scheletri che – una volta di più – rendono la riflessione sulla tecnica d’una attualità scottante. Questo soprattutto perché all’antipodo della vicenda, al vertice del cucuzzolo l’intraprendente Zuck parla e pensa – immagina – nei termini di Metaverso [consigliato è quest’interessante articolo di Ryan Zickgraf che introduce alla questione]. Se da un lato il “farsi oscuro” delle tre giganti piattaforme può esser interpretata – a seconda del punto di vista, nonché dell’occhio di chi guarda – come un guasto o come una guerra in corso fra grossi (grossi grossi) possessori di capitali, altrettanto distopico e attualmente oscuro – in quanto se ne sa poco e soprattutto poco si immagina – è l’orizzonte in direzione e in funzione del quale opera e ragiona il precursore del social network di massa, concettualmente all’incirca un “Internet incarnato, [nel quale] invece di visualizzare i contenuti, ci sei dentro”. Il passo più interessante è il parallelismo con Snow Crash, romanzo di Neal Stephenson del 1992 dal quale lo stesso termine “metaverso” è mutuato. In sostanza, con la linea di demarcazione fra il reale e il virtuale che sfuma sempre più fino a farsi un dettaglio accessorio (l’autore cità l’iperrealtà teorizzata da Baudrillard, quando “realtà e simulazione si fondono così perfettamente che non c’è una chiara separazione tra i due mondi”), compare la categoria dei gargoyle, esseri che

“Non finiscono mai una frase. Sono alla deriva in un mondo disegnato a laser, scansionano retine in tutte le direzioni, controllano chiunque si trovi nel raggio di un migliaio di metri, vedono tutto contemporaneamente alla luce visiva, agli infrarossi, al radar a onde millimetriche e agli ultrasuoni.” [dal romanzo di Stephenson, citato nell’articolo]

Sono quella categoria vagamente postumana che finisce con l’aderire acriticamente e ciecamente ad ogni dettame votato all’innovazione, al progresso, al dominio della tecnica sull’essere umano. L’uomo è l’essere sacrificabile [homo sacer] immolato (“votato”) sull’altare del capitale.  Verrà il giorno d’uno scontro definitivo e costituente fra gli aderenti – che allora saranno necessariamente utenti/adepti – e la nuova resistenza dei “rimasti umani”? Non ci resta che vivere e stare a vedere.

2. Le elezioni. Non mi va di scrivere granché, così incollo questo testo preso dal profilo fb di Davide Blotta – in allegato stanno alcune toccanti fotografie che consiglio ai curiosi. Non c’è poi tanto da aggiungere, si potrebbe, ma magari un’altra volta.

2015 Sgombero di Ex Telecom (280 persone, 100 minori)
2015 Sgombero di Atlantide
2016 Sgombero delle famiglie dello stabile di Via de Maria
2017 Sgombero Galaxy (31 Famiglie)
2017 Sbombero O.Z. Il più grande skatepark indoor d’Europa. Postazione preferita di B.U.M (Bologna Underground Movement). Ora fa parte dell’Unipol.
2017 Sbomberi di Labas e Crash! Eseguiti nella stessa ora, alle 6 del mattino di martedì 8 Agosto. Una mossa da veri leoni. Labas prenderà una cantonata talmente forte da non riprendersi mai più. Oggi infatti è una parrocchia. Ah, fino a poco tempo fa ti davano i sacchetti dell’umido.
2019 Sgombero di Crash!
2019 Sgombero di XM24 avvenuto alle 5 di mattina del 6 Agosto. La giunta PD ha la simpatica idea di impiegare una ruspa per cacciare via gli attivisti. Era il periodo in cui scimmiottare Salvini ti faceva vincere qualche consenso alla briscola del Pontelungo.
Gli attivisti rimangono sui tetti, c’è chi si lega in piscina, c’è chi si appende al soffitto. Si fa avanti un certo Lepore, un ragazzone come lo chiamano quelli dell’Estragon (Estragon, a dire la verità nessuno si ricorda più di voi. Sarà che non ascolto più i Green Day ma nella mia testa eravate sepolti. Una cosa mi ricordo, a 16 anni mi faceste pagare 4 euro l’acqua nel vostro locale. Spero riapriate presto) Lepore promette agli attivisti che se fossero scesi avrebbe firmato seduta stante l’impegno ad assegnare a Xm24 una nuova casa. Lepore non era il rappresentate di classe della 5b, Lepore, come da ultimi 10 anni, ha l’incarico su Cultura e Turismo di questa città. Attenzione, il personaggio lo conoscevamo. Prima di allora si era infatti presentato con l’idea di salvare i muri esterni del centro sociale perché gli piacevano i graffiti. Grazie, rispondemmo, che ne pensi della piscina invece?. Alla fine della storia propose di istituire un museo della Bologna punk con quegli stessi muri. Sarà perché gli anarchici non vanno matti per i musei, specie se sono loro le opere gratuite, ma la proposta fu accolta con la cancellazione dei graffiti e con la comunicazione scritta di quel che loro pensavano dell’intera idea: all’inizio si optò per scrivere vaffanculo, poi la maggioranza votò per una scritta di 30 metri che recitasse ‘questo cohousing è una cagata pazzesca’. Museo rovinato, la scritta è ancora lì.
Qualche mese più tardi il posto che viene assegnato a Xm24 si trova nei pressi di Imola, non ha l’attacco della luce e si può raggiungere solo a piedi. Frequentavo XM in quel momento e mi ricordo che il posto offerto non piacque molto.
2020, Febbraio. Nella notte ricevo una telefonata. Finisco di lavorare e mi reco all’Excaserma Sani. Fotografo lo sgombero della palazzina che è ancora buio.
Con l’eccezione dell’ex Telecom, in tutti questi posti sgomberati ora ci fanno le assemblee i topi. Alcuni vengono anche da fuori.
L’ex Telecom è il mirabile esempio di quello che oggi definiamo lessicalmente come baratro. Uno studentato che vende camere doppie a 600€. È felicemente abitato da un gruppo di ragazzotti bianchi panna che amano sputare in testa ai passanti e agli attivisti contrari allo sviluppo del lusso in un quartiere povero.
2021 Apre Dumbo, ovvero un capannone. Viene chiamato oggi il centro sociale di Matteo Lepore. In questo capannone aperto con soldi pubblici si può ascoltare tranquillamente un concerto di Jennifer Lopez ma attenzione a farsi venire sete perchè altrimenti devi pagare l’acqua. Ripeto, devi pagare l’acqua. In altenativa ci sono dei simpatici drink, o meglio delle poltiglie colorate, a 9 euro l’uno. Non ti preoccupare, accettano anche carte di credito: mai esistito un capannone così comodo.
Non mi importa nulla delle elezioni, non mi importa nulla di chi votate, vi considero amici come il primo giorno che vi ho conosciuto. Sono molto triste, questo sì.
Abito da 24 anni nel quartiere Reno, un agglomerato urbano di tipo popolare costruito in seguito all’immigrazione dei meridionali nella periferia ovest di Bologna. Ora siamo meridionali, indiani, pakistani, cinesi, rumeni. Conviviamo bene e ci somigliamo un po’ tutti. Nel mio quartiere ci sono più compro oro che fermate del bus. Parliamoci chiaro, ne abbiamo parecchie di fermate di bus qui. Chi va a fare colazione nei nostri bar può assaggiare il cornetto inzuppato alle tonnellate di anidride carbonica della via Emilia. Ci sono parecchie slot machine. Mi ricordo che quando andavo in centro da piccolo mi chiedevo perchè lì mancassero, e mi sembravano un po’ sottosviluppati quelli di saragozza che non avevano neanche un posto in cui giocare ai cavalli. Ecco, da noi almeno si può scegliere, ci si può ammalare di gioco d’azzardo oppure di cancro per via delle polveri sottili. Ecco, secondo me Sartori è del quartiere Saragozza perchè a noi questa idea del frisbee, io ho provato a fare mente locale, non ci è mai venuta in mente. E’ per questo motivo che non posso sopportare il nostro futuro assessore alla cultura, ho un problema di circoscrizione.
A questo punto, governate, fate quello che volete. Ma non interessatevi più di noi, non interessatevi più di cultura, storia e società. Costruite questo benedetto campo da fresbee, costruite tutte le fiere del cibo che volete ma lasciateci in pace. Lasciate stare i poveri. Noi non sappiamo che farcene di voi e voi non sapete che farvene di noi.
Chiedo scusa se ho ferito qualcuno/a, sarà che oggi non mi sento molto super.

(dal profilo di Davide Blotta)

Per oggi può bastare così. Per chi non ne avesse abbastanza, un articolo su zero dal titolo “L’insostenibile leggerezza dell’eventificio Bologna”: un’altra questione urgente.

[ps. queste riflessioni frammentate sono dedicate a Jamil, il palestinese di al Salam di via 100300 che a fine settembre se n’è andato da questa terra, presumibilmente in un posto migliore; ricordo un paio di belle chiacchierate, in quei casi era sempre Gio che aizzava la conversazione. Mi rendo conto adesso del dono prezioso di quei momenti, che non torneranno, sperimento un’impotenza disarmante e mi consolo al pensiero d’una flebile manciata di ricordi belli. Arrivederci, signor Jamil venuto dalla Palestina]

Grammatica demografica

Tuesday, September 28th, 2021

“La mia realtà mi elimina, non dite che è colpa mia”
Smart Cops, Realtà Cercami, 2012

“Ascoltando” la lezione di demografia sociale di giovedì mattina, registrata su Panopto e gentilmente resa fruibile dalla prof che, per far lezione, pendola ogni volta fra Milano e Bologna – e ritorno. Per leggere delle slides che introducono alla terminologia della materia. Senz’altro noiosa, indubbio, ma c’è qualcosa di più, o almeno – in qualche modo – pare trasparire qualcosa di altro. Ogni cosa è detta come non potesse essere altrimenti, e un filo sottile come lega la noia che suscita e l’accettazione della sua naturale ovvietà: le generalizzazioni frequenti, la tendenza ad assolutizzare, la lingua si schiaccia e s’appiattisce mostrandosi come al servizio dei dati. La voce dell’insegnante, estremizzando, pare poco più che il collante che unisce i puntini incolonnati che puntellano ciascuna slide, ché del resto legge le parole già dette, già scritte sulla slide. Non c’è sorpresa, non c’è veramente qualcosa di più, qualcosa in più.

Tante questioni corollarie possibili contornano questa frequenza a-sincrona e forzosa che il piano di studi impone anche a chi, potesse, non sarebbe qui [ma poi, qui dove?]. Ritorneranno…

La graduale scomparsa dei tempi (congiuntivo, passato semplice, imperfetto, forme composte del futuro, partecipa passato…) dà luogo a un pensiero al presente, limitato al momento, incapace di proiezioni nel tempo.
La generalizzazione del tu, la scomparsa delle maiuscole e della punteggiatura sono altrettanti colpi mortali portati alla sottigliezza dell’espressione.
Cancellare la parola ′′ signorina ′′ non solo è rinunciare all’estetica di una parola, ma anche promuovere l’idea che tra una bambina e una donna non c’è nulla.
Meno parole e meno verbi coniugati sono meno capacità di esprimere le emozioni e meno possibilità di elaborare un pensiero.
Studi hanno dimostrato che parte della violenza nella sfera pubblica e privata deriva direttamente dall’incapacità di mettere parole sulle emozioni.
Senza parole per costruire un ragionamento, il pensiero complesso caro a Edgar Morin è ostacolato, reso impossibile.
Più povero è il linguaggio, meno esiste il pensiero.
La storia è ricca di esempi e gli scritti sono molti di Georges Orwell in 1984 a Ray Bradbury in Fahrenheit 451 che hanno raccontato come le dittature di ogni obedienza ostacolassero il pensiero riducendo e torcendo il numero e il significato delle parole .
Non c’è pensiero critico senza pensiero. E non c’è pensiero senza parole.
Come costruire un pensiero ipotetico-deduttivo senza avere il controllo del condizionale? Come prendere in considerazione il futuro senza coniugare il futuro? Come comprendere una temporanea, un susseguirsi di elementi nel tempo, siano essi passati o futuri, nonché la loro durata relativa, senza una lingua che distingua tra ciò che sarebbe potuto essere, ciò che è stato, ciò che è, cosa potrebbe accadere, e cosa sarà dopo che ciò che potrebbe accadere? Se un grido di raduno dovesse farsi sentire oggi, sarebbe quello rivolto a genitori e insegnanti: fate parlare, leggere e scrivere i vostri figli, i vostri studenti, i vostri studenti. Insegna e pratica la lingua nelle sue forme più svariate, anche se sembra complicata, soprattutto se complicata. Perché in questo sforzo c’è la libertà. Coloro che spiegano a lungo che bisogna semplificare l’ortografia, scontare la lingua dei suoi ′′ difetti “, abolire generi, tempi, sfumature, tutto ciò che crea complessità sono i becchini della mente umana. Non c’è libertà senza requisiti. Non c’è bellezza senza il pensiero della bellezza “.

(C. Cleave, trovata per caso, in giro sul web)

Pensieri durante lezione

Friday, September 24th, 2021

Murati fra i meandri d’uno schermo, segregati in casa (“come sorci”) e relegati ad una solitudine che non può dirsi altro che assoluta, gli studenti che seguono “a distanza” guardano, soli e sconsolati, l’aula nella quale quelli presenti in loco socializzano, cominciano a conoscersi nei momenti di pausa, quando la lezione s’interrompe ma la videocamera che riprende un ampio scorcio della stanza lascia intravedere – ma non sentire, se non in modo sconnesso e comunque incomprensibile – qualcosa dal quale quelli lontani sono inevitabilmente, inesorabilmente esclusi. La lezione è una merda, molto più delle altre, e forse è per questo che dura quattro ore invece che due. In classe c’è meno gente di quella che potrebbe starci, la capienza s’è fatta un fatto politico, una decisione arbitraria come un’altra, e chi presenzia, oltre al marchio fedeltà deve rispettare le regole precedenti, che non se ne sono mai andate: la maschera, la prenotazione preventiva, l’esibizione del lasciapassare, segnarsi di qua, confermarsi di là, “essere responsabili”. Chi è a casa è meno sotto pressione, da questo punto di vista, ma al contempo è solo, del tutto e in tutto solo. Può ridere delle stronzate che dice il prof, può sentirle come un ronzio di sottofondo standosene in mutande e tenere i piedi sulla scrivania, può violare quelle norme sociali – quelle vecchie, di costume, e quelle nuove, ugualmente di costume ma ben più repressive, e questo essenzialmente per un motivo prima degli altri: perché non è visto. Non vi è certezza di ciò, certo, e senz’altro non se “sceglie” (ancor più paradossale: “decide”) di tenere accesa la videocamera del terminale da cui tenta, in un modo abietto, d’esser presente a ciò che avviene in un altrove che magari conosce e brama, ma che ciononostante gli è precluso. Vita è vedere ma al contempo ‘esser visto’, l’intriseca – e per molti, inconsapevole – consapevolezza (o speranza, o ambizione) di esser guardati da qualcuno. Cambia l’intensità a seconda degli ambiti e delle circostanze, cambiano le aspirazioni a seconda degli abiti e delle sensazioni, ma quel sottile velo di guardabilità, che potremmo dire possibilità d’essere guardati… è essenza di vita, oggigiorno. Lo era per i greci, lo è per noi di oggi, sebbene filtrati e immortalati in una miriade di scatti e ritocchi, didascalie e velleità. E’ questo un elemento sostanziale che i social strumentalizzano e cannibalizzano (oltre altri concetti secolari come l’amicizia e il piacere, certo; non è questo il momento), è su questo tasto dolente, al contrario, che s’opera la leva di quest’inumana discriminazione ricoperta d’una patina di verde e d’un’altra di carattere pseudo-sanitario. Chi non è presente è un pallino e un nome, se non inserisce una foto di sè, e questo frustra prima di tutto sé stesso, invisibile agli occhi degli altri.

Alle 12.17, al finir della pausa, il professore – un ingegnere senza ingegno, verosimilmente un idiota – esorta quelli “da casa” a scrivere nome e cognome in chat, seduta stante, affinché anch’essi mostrino d’esserci, d’essere dinnanzi lo schermo, e poco importa se seguono, se sono sdegnati o annoiati, dove effettivamente sono: ciò che conta è che sentano l’ordine impartito ed eseguano, obbediscano. Lo scrivo, le iniziali in minuscolo, e subito penso di scrivere a Sara, che so che è in classe, un messaggio su whatsapp: “ora capisci cos’è la biopolitica?”, ma demordo quasi subito, perché so che non capisce e non capirebbe, forse un giorno capirà, ma magari pure mai, ed eppure tante volte sarà più felice di me.

L’obbedienza non è più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, attaccava quel prete di Barbiana a metà anni sessanta che ben presto dio capitale ha fagocitato come ogni altra cosa, compreso il nostro immaginario, il nostro onirico, il nostro intero orizzonte di pensiero: prima di lui tanti altri, tutti già passati altrove, “tutta gente che aveva capito”, canterebbe Faber. Eppure la cieca obbedienza è troppo tentante, allettante, troppo conveniente per troppo e per troppi. L’ho detto e lo penso tuttora, diventare grandi significa fare ciò che ci conviene e smettere di problematizzare ciò, più di tanto. Gran parte delle volte significa obbedire ciecamente, anestetizzare la volontà e il senso critico e obbedire, fare ciò che ci è comandato. Quelli che disubbidiscono, che puntano i piedi e fanno attrito e resistenza sono un po’ come quei bambini che da piccoli vedevano il bulletto che se la prendeva con qualcuno e avevano paura di (re)agire, mettersi in mezzo e difendere il malcapitato di turno, e così se ne stavano in disparte e si sentivano in colpa per quel loro essere felloni, ma pure – col tempo, granelli di sabbia sedimentati nell’inconscio – sentivano crescere dentro l’odio (quasi ingiustificato, quasi, paradossalmente) verso i prepotenti. Oggi questa razza di ex bambini in via d’estinzione si ostina a non voler ubbidire a uno stato prepotente e villano, mentre tutti gli altri, tornati un po’ bambini, ubbidiscono ora come allora e sguazzano nei loro privilegi ritrovati: consumare al ristorante, consumare al tavolo, consumare sé stessi – mostrandosi però rigorosamente felici e presi bene – verso un baratro sempre più scuro. Lo stato li tratta da bambini, gli dice cosa possono fare e cosa no, come devono vestirsi e come coprirsi il volto, ne irride la dignità e li scannerizza come i polli sul rullo del supermercato, li fa codice e li passa allo scanner.

In coda alla cassa, ieri, aspettavano pazienti il loro turno per barattare il cibo necessario a farsi sazi – e quindi sopiti – per una settimana in cambio d’un corrispettivo in denaro – che poi è un corrispettivo in tempo, quello impiegato a “guadagnarselo”, lavorando e quindi sudando o no, a seconda del tasso del privilegio di ciascuno: oggi invece, ugualmente pazienti ma ben più sottomessi, aspettano sul rullo al fine di essere ammessi al supermercato di turno (lo spazio dove consumeranno – vedi sopra, o lo spazio culturale come il teatro o l’università, pur sempre un teatro, o meglio un palcoscenico, seppur almeno in parte diversamente snob). Una volta ammessi – a discrezione del dispositivo di controllo, rigorosamente – consumeranno e saranno consumati, brinderanno al contrario della salute per chi manca e, come sempre, pagheranno due volte in tempo quel bisogno di sentirsi inclusi e visti.

In certi momenti è difficile resistere, tirare avanti, ma poi passa, la lezione finisce e ritorna il silenzio, il sole brilla, la brezza soffia sulle cose, i colori risplendono e lo schermo tace. E torna la quiete, un po’ alla volta, il rancore e la superbia si sciolgono scaldati dal sole, una bozza di sorriso bonario torna a solcarmi il volto, timido: scrivere è pur sempre un atto liberatorio, se scinto dal giogo della produzione e scevro dall’idea d’un qualsiasi compenso. Non c’è verso di vincere questa guerra – noi Comunardi non stiamo combattendo, del resto, oggi come tanti anni fa, noi vorremmo (o meglio: vogliamo) solo vivere, camminando verso un mondo più bello – o almeno, un pizzico più sensato di questo.

Chiudono le parole di G. Anders da “L’uomo antiquato”, 1956, ben attuali per questi tempi tristi. Alla prossima

“Per soffocare in anticipo ogni rivolta, non bisogna farlo in modo violento. I metodi come quelli di Hitler sono superati. Basta creare un condizionamento collettivo così potente che l’idea stessa di rivolta non verrà nemmeno più in mente agli uomini. L’ideale sarebbe formattare gli individui fin dalla nascita limitando le loro abilità biologiche innate. In secondo luogo, si prosegue il condizionamento riducendo drasticamente l’istruzione, per riportarla ad una forma di inserimento professionale. Un individuo ignorante ha solo un orizzonte di pensiero limitato e più il suo pensiero è limitato a preoccupazioni mediocri, meno può ribellarsi. L’accesso alla conoscenza deve diventare sempre più difficile ed elitario, il divario tra il popolo e la scienza deve aumentare, l’informazione destinata al grande pubblico anestetizzata da qualsiasi contenuto sovversivo.
Soprattutto niente filosofia. Ancora una volta bisogna usare persuasione e non la violenza diretta: attraverso la televisione si diffonderanno intrattenimento lusinghiero, sempre più lusinghiero, emotivo o istintivo. Occuperemo gli spiriti con ciò che è inutile e divertente. È buono, in una chiacchierata e in una musica incessante, impedire che la mente pensi. Metteremo la sessualità in prima fila tra gli interessi umani, come tranquillante sociale non c’è niente di meglio.
Si farà in modo di bandire la serietà dell’esistenza, di girare in derisione tutto ciò che ha un valore elevato, di mantenere una costante apologia della leggerezza, in modo che l’euforia della pubblicità diventi lo standard della felicità umana e il modello della libertà. Il condizionamento produrrà così da sé una tale integrazione, che l’unica paura – che bisognerà mantenere – sarà quella di essere esclusi dal sistema e quindi di non poter più accedere alle condizioni necessarie per la felicità.
L’uomo di massa, così prodotto, deve essere trattato come quello che è: un vitello, e deve essere sorvegliato come deve essere un gregge. Tutto ciò che permette di addormentare la sua lucidità è socialmente buono, ciò che minaccia di svegliarlo deve essere ridicolizzato, soffocato, combattuto. Qualsiasi dottrina che metta in discussione il sistema deve prima essere designata come sovversiva e terroristica e chi la sostiene dovrà poi essere trattato come tale.”