Archive for the ‘Ricondivisioni’ Category

Guerra e demenza (senile) – di Franco Bifo Berardi

Saturday, March 5th, 2022

Ucraina, agonia dell’Occidente & co: quello che ci occorre è una geopolitica della psicosi. Pubblicato sul blog di Nero il 28 febbraio 2022, qui.

Annientare

Anéantir, l’ultimo libro di Houellebecq, è un volume di settecento pagine, ma la metà basterebbe. Non è il migliore dei suoi libri, ma la più disperata rappresentazione, insieme rassegnata e rabbiosa, del declino della razza dominatrice.

Francia profonda. Una famiglia si riunisce intorno all’ottantenne padre colpito da ictus. Coma interminabile del vecchio patriarca che lavorava per i servizi segreti. Il figlio Paul, che lavora anche lui per i servizi segreti ma anche per il Ministero delle Finanze, scopre di avere un cancro terminale durante il coma interminabile del padre. L’altro figlio, Aurélien, fratello di Paul, si suicida, incapace di affrontare una vita in cui si è sempre sentito sconfitto. Resta la figlia, Cécile, cattolica integralista moglie di un fascistoide notaio che ha perso il lavoro, ma ne trova un altro negli ambienti della destra lepenista.

La malattia terminale è il tema di questo romanzo mediocre: l’agonia della civiltà occidentale.

Non è un bello spettacolo, perché la mente bianca non si rassegna all’ineluttabile. Tragica la reazione dei vecchi bianchi agonizzanti.

Lo scenario in cui questa agonia si svolge è la Francia di oggi, culturalmente devastata da quaranta anni di aggressività liberista, un paese spettrale in cui la lotta politica si svolge nel quadrato mefitico di nazionalismo aggressivo, razzismo bianco, rancore islamico e integralismo economicista.

Ma lo scenario è anche il mondo post-globale, minacciato dal delirio senile della cultura dominatrice ma declinante: bianca, cristiana, imperialista.

Guerra | Agonia | Suicidio

Alla frontiera orientale d’Europa: due  vecchi bianchi giocano una partita in cui nessuno dei due può recedere.

Il vecchio bianco americano è reduce dalla disfatta più umiliante e tragica. Peggio che Saigon, Kabul rimane nell’immaginario globale come il segno del marasma mentale della razza dominatrice.

Il vecchio bianco russo sa che il suo potere si fonda su una promessa nazionalistica: si tratta di vendicare l’onore violato della Santa Madre Russia.

Chi recede perde tutto.

Che Putin sia un nazista è noto da quando concluse la guerra in Cecenia con lo sterminio. Ma era un nazista molto gradito al Presidente americano che guardandolo negli occhi disse di avere capito che era sincero. Molto gradito anche alle banche inglesi che sono piene di rubli rapinati dagli amici di Putin dopo lo smantellamento delle strutture pubbliche ereditate dall’Unione Sovietica. Erano amici carissimi i gerarchi russi e quelli anglo-americani, quando si trattava di distruggere la civiltà sociale, l’eredità del movimento operaio e comunista.

Ma l’amicizia tra gli assassini non dura. A cosa sarebbe infatti servita la NATO, se si fosse davvero instaurata la pace? E come sarebbero finiti gli immensi profitti delle aziende che producono armi di distruzione di massa?

L’espansione della NATO serviva a rinnovare un’ostilità a cui il capitalismo non poteva rinunciare.

Non esiste una spiegazione razionale della guerra ucraina, perché essa è il momento culminante di una crisi psicotica del cervello bianco. Che razionalità ha l’espansione della NATO che arma i nazisti polacchi, baltici, ucraini contro il nazismo russo? In cambio Biden ottiene il risultato più temuto dagli strateghi americani: ha spinto Russia e Cina in un abbraccio che cinquant’anni fa Nixon era riuscito a incrinare.

Dunque per orientarci nella guerra incombente non serve la geopolitica, ma la psicopatologia: forse ci occorre una geopolitica della psicosi.

Infatti in gioco c’è il declino politico, economico, demografico e alla fine psichico della civiltà bianca, che non può accettare la prospettiva dell’esaurimento, e preferisce la distruzione totale, il suicidio, alla lenta estinzione del dominio bianco.

Occidente | Futuro | Declino

La guerra ucraina inaugura una isterica corsa agli armamenti, un consolidamento delle frontiere, uno stato di violenza crescente: dimostrazioni di forze che in realtà sono segno del marasma senile in cui è caduto l’Occidente.

Il 23 febbraio 2022, quando le truppe russe erano già entrate nel Donbass, Trump, ex presidente e candidato alla prossima presidenza, giudica Putin un genio del peacekeeping. Suggerisce che gli Stati uniti dovrebbero mandare un esercito simile alla frontiera col Messico.

Cerchiamo di capire cosa vuol dire l’osceno Trump. Che nucleo di verità contiene il suo delirio? In questione è lo stesso concetto di Occidente.

Ma chi è l’Occidente?

Se della parola “Occidente” diamo una definizione geografica, allora la Russia non ne fa parte. Ma se di quella parola pensiamo il nucleo antropologico e storico, allora la Russia è più Occidente di ogni altro occidente.

L’Occidente è la terra del declinare. Ma è anche la terra dell’ossessione di futuro. E le due cose sono una sola, poiché per gli organismi soggetti alla seconda legge della termodinamica, come sono i corpi individuali e sociali, futuro vuol dire declino.

Siamo dunque uniti nel futurismo e nel declino, cioè nel delirio di onnipotenza e nella disperata impotenza, noi occidentali dell’Ovest e gli occidentali della smisurata patria russa.

Trump ha il merito di dirlo senza tante storie: i nostri nemici non sono i russi, ma i popoli del sud del mondo, che abbiamo sfruttato per secoli e ora pretendono di spartire con noi le ricchezze del pianeta, e vogliono emigrare nelle nostre terre. Il nemico è la Cina che abbiamo umiliato, l’Africa che abbiamo depredato. Non la bianchissima Russia che fa parte del Grande Occidente.

La logica trumpista si fonda sulla supremazia della razza bianca di cui la Russia è l’avamposto estremo.

La logica di Biden invece è la difesa del mondo libero che sarebbe poi il suo, nato da un genocidio, dalla deportazione di milioni di schiavi e fondato sull’ineliminabile razzismo sistemico. Biden rompe il Grande Occidente a favore di un Piccolo Occidente senza Russia, destinato a dilaniarsi, e a coinvolgere nel suo suicidio l’intero pianeta.

Proviamo a definire l’Occidente come sfera di una razza dominatrice ossessionata dal futuro. Il tempo si tende in una pulsione espansiva: la crescita economica, l’accumulazione, il capitalismo. Proprio questa ossessione di futuro alimenta la macchina del dominio: investimento di presente concreto (di piacere, di rilassamento muscolare) in astratto valore futuro.

Potremmo forse dire, riformulando un poco i fondamenti dell’analisi marxiana del valore, che il valore di scambio è proprio questa accumulazione del presente (il concreto) in forme astratte (come il denaro) che si possono scambiare domani.

Questa fissazione sul futuro non è affatto una modalità cognitiva naturale dell’umano: gran parte delle culture umane sono fondate su una percezione ciclica del tempo, o sulla dilatazione insuperabile del presente.

Il Futurismo è il passaggio alla piena autoconsapevolezza, anche estetica, delle culture dell’espansione. Ma i futurismi sono diversi e in qualche misura divergenti.

L’ossessione del futuro ha implicazioni diverse nella sfera teologico-utopica che è propria della cultura russa, e nella sfera tecnico-economica che è propria della cultura euroamericana.

Il Cosmismo di Fedorov e il Futurismo di Majakovski hanno  un respiro escatologico di cui sono privi sia il fanatismo tecnocratico marinettiano, sia i suoi epigoni americani alla Elon Musk. Forse per questo tocca alla Russia terminare la storia dell’Occidente, e ora ci siamo.

L’Occidente ha rimosso la morte perché non è compatibile con l’ossessione del futuro. Ha rimosso la senescenza perché non è compatibile con l’espansione.

Il nazismo è ovunque

Dopo la soglia pandemica, il nuovo panorama è la guerra  che oppone nazismo a nazismo. Gunther Anders aveva presentito nei suoi scritti degli anni Sessanta che la carica nichilista del nazismo non si era affatto esaurita con la sconfitta di Hitler, e sarebbe tornata sulla scena del mondo per effetto dell’ingigantirsi della potenza tecnica che provoca un sentimento di umiliazione della volontà umana, ridotta all’impotenza.

Ora vediamo che il nazismo riemerge come forma psicopolitica del corpo demente della razza bianca che reagisce rabbiosamente al suo inarrestabile declino. Il caos virale ha creato le condizioni di formazione di una infrastruttura biopolitica globale, ma ha anche accentuato fino al panico la percezione di ingovernabilità del proliferare caotico della materia che perde ordine, che si disintegra, e muore.

L’Occidente ha rimosso la morte perché non è compatibile con l’ossessione del futuro. Ha rimosso la senescenza perché non è compatibile con l’espansione. Ma ora l’invecchiamento (demografico, culturale, e anche economico) delle culture dominatrici del nord del mondo si presenta come uno spettro che la cultura bianca non può neppure pensare, figuriamoci poi accettare.

Ecco quindi il cervello bianco (quello di Biden come quello di Putin) entrare in una crisi furiosa di demenza senile. Il più sfrenato di tutti, Donald Trump, dice una verità che nessuno vuole ascoltare: Putin è il nostro migliore amico. Certamente è un assassino razzista, ma noi non lo siamo di meno.

Biden rappresenta la rabbia impotente che provano i vecchi quando si rendono conto del declinare delle forze fisiche, dell’energia psichica e dell’efficienza mentale. Ora l’esaurimento è in fase avanzata, l’estinzione è la sola prospettiva rassicurante.

Potrà l’umanità salvarsi dalla violenza sterminatrice del cervello demente della civiltà occidentale, russa europea e americana, in agonia?

Comunque evolva l’invasione dell’Ucraina, che divenga occupazione stabile del territorio (improbabile) o che si concluda con un ritiro delle truppe russe dopo aver compiuto la distruzione dell’apparato militare che gli euroamericani hanno fornito a Kiev (probabile), il conflitto non si può comporre con la sconfitta di uno o dell’altro dei due vecchi patriarchi. Né l’uno né l’altro possono accettare di recedere prima di avere vinto. Perciò questa invasione sembra aprire una fase di guerra tendenzialmente mondiale (e tendenzialmente nucleare).

La questione che al momento appare senza risposta è relativa al mondo non occidentale, che ha subito per alcuni secoli l’arroganza, la violenza lo sfruttamento di europei, russi e infine americani.

A Firenze si tiene un convegno sull’emigrazione e chiamano Marco Minniti come relatore, che è pressapoco come invitare Adolf Hitler a tenere una prolusione sulla questione ebraica.

Nella guerra suicida che l’Occidente ha scatenato contro l’Altro Occidente le prime vittime sono coloro che hanno subito il delirio dei due occidenti, coloro che non vorrebbero alcuna guerra, ma debbono subirne gli effetti.

La guerra finale contro l’umanità è cominciata.

La sola cosa che possiamo fare è disertarla, trasformare collettivamente la paura in pensiero, e rassegnarsi all’inevitabile, perché solo così può accadere, in contrattempo, l’imprevedibile: la pace, il piacere, la vita.

Corpo Celeste

Wednesday, November 17th, 2021
Questo spazio è la punta di ghiaccio dell’iceberg che è la vita sommersa; d’impegni, di fatiche e velleità. Fra le trame e l’asfissia, dopo tanto vagare nel nulla, talvolta qualche goccia di splendore filtra in controluce, quasi per caso. Oggi è un giorno in cui la ricerca quotidiana trova qualcosa: che cosa, questo è un altro discorso.
“… Ecco, ho finito. Ho finito anche di essere uno scrittore – se mai lo sono stata -, ma sono lieta di averlo tentato. Sono lieta di aver speso la mia vita per questo. Sono lieta, in mezzo alle mie tristezze mediterranee, di essere qui. E dirvi com’è bello pensare strutture di luce, e gettarle come reti aeree sulla terra, perché essa non sia più quel luogo buio e perduto che a molti appare, o quel luogo di schiavi che a molti si dimostra – se vengono a occupare i linguaggi, il respiro, la dignità delle persone. A dirvi come sia buona la Terra, e il primo dei valori, e da difendere in ogni momento. Nei suoi paesi, anche nei suoi boschi, nelle sorgenti, nelle campagne, dovunque siano occhi – anche occhi di uccello o domestico o selvatico animale. Dovunque siano occhi che vi guardano con pace o paura, là vi è qualcosa di celeste, e bisogna onorarlo e difenderlo. So questo. Che la Terra è un corpo celeste, che la vita che vi si espande da tempi immemorabili è prima dell’uomo, prima ancora della cultura, e chiede di continuare a essere, e a essere amata, come l’uomo chiede di continuare a essere, e a essere accettato, anche se non immediatamente capito e soprattutto non utile. Tutto è uomo. Io sono dalla parte di quanti credono nell’assoluta santità di un albero e di una bestia, nel diritto dell’albero, della bestia, di vivere serenamente, rispettati, tutto il loro tempo. Sono dalla parte della voce increata che si libera in ogni essere – al di là di tutte le barriere – e sono per il rispetto e l’amore che si deve loro.
C’è un mondo vecchio, fondato sullo sfruttamento della natura madre, sul disordine della natura umana, sulla certezza che di sacro non vi sia nulla. Io rispondo che tutto è divino e intoccabile: e più sacri di ogni cosa sono le sorgenti, le nubi, i boschi e i loro piccoli abitanti. E l’uomo non può trasformare questo splendore in scatolame e merce, ma deve vivere e essere felice con altri sistemi, d’intelligenza e di pace, accanto a queste forze celesti. Che queste sono le guerre perdute per pura cupidigia: i paesi senza più boschi e torrenti, e le città senza più bmbini amati e vecchi sereni, e donne al disopra dell’utile. Io auspico un mondo innocente. So che è impossibile, perché una volta, in tempi senza tempo e fuori dalla nostra possibilità di storicizzare e ricordare, l’anima dell’uomo perse una guerra. Qui mi aiuta Milton, e tutto ciò che ho appreso dalla letteratura della visione e della severità. Vivere non significa consumare, e il corpo umano non è un luogo di privilegi. Tutto è corpo, e ogni corpo deve assolvere un dovere, se non vuole essere nullificato; deve avere una finalità, che si manifesta nell’obbedienza alle grandi leggi del respiro personale, e del respiro di tutti gli altri viventi. E queste leggi, che sono la solidarietà con tutta la vita vivente, non possono essere trascurate. Noi, oggi, temiamo la guerra e l’atomica. Ma chi perde ogni giorno il suo respiro e la sua felicità, per consentire alle grandi maggioranze umane un estremo abuso di respiro e di felicità fondati sulla distruzione planetaria dei muti e dei deboli – che sono tutte le altre specie -, può forse temere la fine di tutto? Quando la pace e il diritto non saranno solo per una parte dei viventi, e non vorranno dire solo la felicità e il diritto di una parte, e il consumo spietato di tutto il resto, solo allora, quando anche la pace del fiume e dell’uccello sarà possibile, saranno possibili, facili come un sorriso, anche la pace e la vera sicurezza dell’uomo.
Ecco, come sono venuta vado via; e vi ringrazio di avermi ascoltata; mi scuso se ho detto troppo o confusamente; e se ho detto poco, e se ho potuto dispiacervi. Come dicono i bambini: non l’ho fatto apposta. Vi auguro un buon giorno di pace e di comprensione. La vita è più grande di tutto, ed è in ogni luogo, e da tutte le parti – proprio da tutte le parti – chiede amicizia e aiuto. Non chiede che questo. E il valore di ogni buona risposta è immenso, se anche non dimostrabile. Amate e difendete il libero respiro di ogni paese, e di ogni vita vivente.
Questo invito, alla fine, calma e consola la mia stessa tristezza, e il senso di essere stata uno scrittore inutile. Ma non lo sono stata del tutto se, oltre il mio respiro, ho appreso a desiderare il libero respiro di ogni creatura e di ogni paese. È tutto, il respiro. È Dio stesso; ed è la cultura quando non fine a se stessa; quando, d’un tratto – voi non lo sapevate che era anche questo -, solleva e trasporta i popoli, come fa a volte, con le confuse onde del mare, un gran vento celeste.” (19 febbraio 1980)
Anna Maria Ortese, “Corpo celeste”, Adelphi, Milano 1997, pp. 159, Lire 15.000

L’alienazione libertaria

Monday, November 8th, 2021

Ferdinando Pastore su l’interferenza, otto novembre duemilaventuno

“Il Covid ci ha cambiati”. Questa considerazione scorre nelle conversazioni giornaliere, tra amici, nei bar. Talmente di uso comune ormai, di facile scorrimento, da alludere al fatto straordinario che nulla è cambiato.
Certo qualche conflitto sociale è riemerso dalle sabbie mobili del sindacalismo concertativo e qualche contraddizione di classe si riappropria di una sua naturale conflittualità. Ma l’uso comune della formula “ci ha cambiato”, il suo riferirsi a sintomatologie psicotiche, il suo svelarsi in termini allucinatori rappresenta di per sé una sconfitta culturale.
Ogniqualvolta una questione propriamente politica viene rovesciata al personale, a bisogni istintuali si offre spazio alle lezioni imprenditoriali sulle rigenerazioni personali, ai corsi di coaching che educano alla riscossa, allo stato performativo. O a cure farmacologiche. Così il percorso egemonico del “discorso capitalista” compie ulteriori passi in avanti. Psicologizzare le fratture sociali è lo stratagemma per anestetizzare la società.
Anche i giovani cadono nel tranello ed esprimono questa esigenza esistenziale. Lo si può notare nelle recenti occupazioni scolastiche dove le rivendicazioni – seppur qualcuna condivisibile – partono dalla descrizione di uno stato d’animo. Il trauma insuperabile degli anni vissuti a distanza, privi di connessioni. Mancata fioritura della Rete.
La spinta ribelle si nutre di frustrazione, del disagio di non poter essere qualsiasi cosa. Di un difetto di potenza.
Ma se tutto si declina al soggettivo l’idea della liberazione nel mercato troverà meccanicamente risposte pronte, adeguate al sentimento di inappagamento percepito. L’emancipazione sarà prescritta dalle consuete ricette. Si dovrà investire con coraggio e a debito nelle proprie illusioni. Chi agirà razionalmente godrà di meritate ricompense. Didattica del sogno a occhi aperti.
David Harvey ha giustamente osservato che il capitalismo riuscì a dare una soluzione alla richiesta libertaria insita nella contestazione sessantottina. La libertà di agire illimitatamente negli interstizi dei mercati, nella loro impalcatura anti-gerarchica, nella promessa di affrancamento dai precetti del Padre, della Chiesa, dello Stato, dei sindacati e dei partiti. Il diritto ad avere diritti. Sempre nuovissimi.
L’epica o la “narrazione”, come amano dire i neo-sapienti dell’utilitarismo contemporaneo, gioca su un concetto ambiguo di libertà che non si libera più da qualcosa [“libertà da”, libertà negativa]. Segue sempre la traccia dell’espansione di sé [“libertà di”, libertà positiva]. Questa predisposizione alla libertà avrebbe sconfitto definitivamente uno dei pilastri della critica al capitalismo, l’alienazione.
L’individuo non può dirsi più alienato poiché sceglie gli investimenti che porteranno alla propria realizzazione ed eventualmente al proprio fallimento. Nessuno fa oggi ciò che non vuole fare. Di rimando nessuno può dichiararsi realmente sfruttato. L’opzione è l’auto-sfruttamento. Sei il padrone di te stesso. Corri, ama, investi, sballati, pensa ai risultati.
Quindi la popolazione si scanna ferocemente sulla promessa di libertà. Un vecchio motto, apripista nell’individualizzazione delle dinamiche sociali, ritrova dignità nel sentire comune. Il personale è politico. L’obiettivo è comune alle due fazioni. Tornare alla normalità. Ma è quella normalità a rappresentare il problema. A rendere l’alienazione invisibile ma sempre più schiacciante.

Miti d’oggi

Wednesday, October 13th, 2021

Premessa

I testi che seguono sono stati scritti mese per mese nel corso di due anni, dal 1954 al 1956, dietro il richiamo dell’attualità. Tentavo allora di riflettere sistematicamente su alcuni miti della vita quotidiana francese. Il materiale di questa riflessione ha potuto essere molto vario (un articolo di giornale, una fotografia di settimanale, un film, uno spettacolo, una mostra), e il soggetto molto arbitrario: si trattava evidentemente della mia attualità.
Il punto di partenza di questa riflessione era il più delle volte un senso di insofferenza davanti alla «naturalità» di cui incessantemente la stampa, l’arte, il senso comune, rivestono una realtà che per essere quella in cui viviamo non è meno perfettamente storica: in una parola soffrivo di vedere confuse ad ogni occasione, nel racconto della nostra attualità, Natura e Storia, e volevo ritrovare nell’esposizione decorativa dell’«ovvio» l’abuso ideologico che, a mio avviso, vi si nasconde.
La nozione di mito mi è parsa sin dall’inizio render ragione di queste false evidenze; intendevo allora il termine in senso tradizionale. Ma ero già persuaso di una cosa da cui in seguito ho cercato di trarre tutte le conseguenze: il mito è un linguaggio. Così, occupandomi dei fatti in apparenza più lontani da ogni forma di letteratura (un incontro di catch, un piatto cucinato, una mostra di oggetti in plastica), non pensavo di allontanarmi da quella semiologia generale del nostro mondo borghese di cui avevo affrontato il versante letterario in saggi precedenti. E solo dopo aver osservato diversi fatti di attualità ho tentato di definire metodicamente il mito contemporaneo: testo che beninteso ho lasciato alla fine di questo volume in quanto non fa altro che ordinare sistematicamente materiali precedenti.

Scritti di mese in mese, questi saggi non tendono a uno svolgimento organico: il loro legame è di insistenza, di ripetizione. Perché non so se, come dice il proverbio, le cose ripetute piacciono, ma credo che almeno significhino. E quanto ho cercato in tutto questo sono delle significazioni. Saranno le mie significazioni? In altre parole, ci sarà una mitologia del mitologo? Indubbiamente, e il lettore vedrà da sé la mia scommessa. Ma veramente non penso che la questione si ponga proprio in questi termini. La «demistificazione», per usare ancora una parola che comincia a logorarsi, non è un’operazione olimpica. Voglio dire che non posso consentire alla tradizionale opinione che postula un divorzio di natura tra l’oggettività dello scienziato e la soggettività dello scrittore, come se uno fosse dotato di una «libertà» e l’altro di una «vocazione», ambedue atte a schivare o a sublimare i limiti reali della loro situazione: pretendo di vivere pienamente la contraddizione del mio tempo, che di un sarcasmo può fare la condizione della verità.

R. B.”

Roland Barthes. Mythologies, 1957, (trad. it. Miti d’oggi, Einaudi 1970), premessa introduttiva.

 

The Great Disruption | Fine o trionfo dell’astrazione – di Franco Bifo Berardi

Thursday, October 7th, 2021

 

Un testo di Bifo pubblicato il 6 ottobre su effimera. Toccante e significativo anche lo scritto precedente, Destino Manifesto, reperibile a questo link.

In Gran Bretagna mancano centomila camionisti per soddisfare i bisogni del mercato. Le merci scarseggiano nei negozi, file di auto per comprare la benzina. Negli Stati Uniti secondo il New York Times (Matt Phillips: Wall Street is obsessed with the price of used cars, October,1) il prezzo delle automobili usate cresce alle stelle perché la produzione di auto è paralizzata.

Durante la pandemia la gente ha preferito i trasporti individuali piuttosto che quelli pubblici. Ma la produzione di auto è stata ridotta, molte fabbriche hanno quasi interrotto la produzione per proteggere dal virus gli operatori, che lavorano in spazi molto ristretti. Inoltre la limitazione nelle forniture di chip elettronici, dovuta a limitazioni simili ha impedito ai produttori auto di tornare alla produzione normale per tutto questanno. Così i consumatori si sono fondati sul mercato dellauto usata catapultando i prezzi verso lalto.

Questi sono solo due degli innumerevoli esempi di un fenomeno che sta esplodendo, e non è solo effetto della pandemia, ma anche del caos sistemico che sta investendo il daily business of life in tutto il pianeta. Il caos della disintegrazione del ciclo globale delle merci, il caos geopolitico prodotto dalla simultanea disfatta afghana dell’Occidente e l’apertura di un nuovo fronte di guerra che punta a mettere sotto assedio la Cina.

Non si tratta di una crisi economica come quelle del secolo passato: non si tratta dell’esplodere di una crisi finanziaria che investe l’economia reale.

Al contrario finora i mercati finanziari godono di buona salute, e gli indici della ripresa post-Covid sembrano buoni in molti paesi, come l’Italia, anche se non siamo affatto in un’era post-Covid, perché il vaccino non sembra aver sconfitto il virus.

Sulla scena del mondo all’inizio del terzo decennio del secolo si svolgono in contemporanea due processi, per effetto della pandemia. Da un lato assistiamo al collasso dell’astrazione, alla perdita di controllo dell’astrazione sulla realtà concreta: un’entità materiale sub-visibile e proliferante ha mandato in tilt il sistema semiotico che sorreggeva l’economia globale.

Il virus è un’entità di confine tra sfera biologica e sfera informazionale. Il bio-virus perciò si è trasformato in un info-virus che ora agisce come psico-virus, infettando la mente collettiva.  L’astrazione finanziaria non ha potuto in alcun modo contenere governare o dissolvere gli effetti del virus, e non è in grado di agire sulle forme psichiche in cui la mutazione virale si manifesta.

Però allo stesso tempo assistiamo a un paradossale trionfo dell’astrazione: la sfera astratta della computazione e della finanza si separano in modo radicale dalla vita quotidiana e dal ciclo di produzione e distribuzione delle merci.

Due tendenze apparentemente incompatibili si manifestano al medesimo tempo: il ciclo globale della produzione è interrotto in molti punti, il caos si diffonde nella catena integrata della distribuzione (great supply chain disruption) la disoccupazione cresce, dovunque la società si impoverisce, il lavoro si precarizza, i salari scendono. Contemporaneamente però il sistema borsistico è caratterizzato da una tendenza al rialzo, e le grandi compagnie del ciclo digitale realizzano enormi profitti rafforzando il dominio dell’assenza sulla presenza.

Così si manifestano due tendenze in parallelo e in contrasto: l’astrazione è stata privata della sua potenza da una sub-visibile concrezione materica, da un virus che prolifera nel corpo sociale fino al punto di interrompere la compatibilità del corpo con l’automa. Al tempo stesso però l’astrazione accentua la sua indipendenza e la sua esteriorità rispetto alla vita sociale concreta. Non so se questa sconnessione schizofrenica sia destinata a durare a lungo, ma possiamo aspettarci che la più grande bolla finanziaria di tutti i tempi sia destinata a esplodere in qualche futuro.

Poiché l’astrazione – cioè il sistema interconnesso degli automatismi tecno-finanziari e dei flussi di informazione – diviene sempre più incapace di interagire con il collasso della materia organica, psichica e sociale possiamo aspettarci che a un certo punto l’intera macchina globale collassi, trascinando con sé la matematica di scambio astratto di nulla con nulla.

Mentre il profitto cresce, si disgregano le giunture della vita civile.

Great Supply Chain Disruption

Cerchiamo di vedere più da vicino il collasso del ciclo concreto della riproduzione sociale. La ripresa della domanda non dipende soltanto da fattori economici, né da un intervento finanziario, o dalle iniezioni di liquidità delle banche centrali che suscitano un’attesa quasi messianica a mio parere destinata a essere presto delusa. La ripresa della domanda dipende anche e soprattutto da scelte culturali, aspettative psicologiche, e in ultima analisi dall’oscillazione psichica che la pandemia ha provocato e che andrà dispiegando i suoi effetti patogeni nell’arco di un periodo molto lungo. L’astrazione tecno-finanziaria non ha presa sulla concretezza del biologico, e dello psichico.

Uno degli effetti dell’interruzione virale del cicli economici è il collasso della globalizzazione, che già era stata attaccata dal ritorno del nazionalismo. Negli ultimi tempi si manifesta un fenomeno completamente nuovo, almeno nelle dimensione attuali. Alcuni la chiamano Great Supply Chain Disruption: scoordinamento e rottura della sincronizzazione del ciclo globale di produzione e distribuzione di merci.

In un articolo dal titolo The world is still short of everything. Get used to it scrivono sul New York Times

Ritardi, mancanza di merci e prezzi crescenti continuano a incasinare gli affari grandi e piccoli. I consumatori si trovano a fare i conti con unesperienza che un tempo era rarissima: alcune merci non sono disponibili, e non si sa quando potranno ritornare. Di fronte a una prolungata mancanza di componenti elettroniche la Toyota ha annunciato il mese scorso di ridurre del 40% la produzione di auto. Le fabbriche in tutto il mondo stanno limitando le loro operazioni, nonostante la domanda di beni, perché non possono comprare parti meccaniche, plastiche e altri materiali grezzi. Le compagnie di costruzione pagano molto di più per avere materiali e sono costrette ad aspettare settimane e talvolta mesi per ricevere ciò di cui hanno bisogno. La Grande Interruzione della Catena di Fornitura è un elemento centrale dellincertezza straordinaria che continua a incastrare le prospettive economiche in tutto il mondo. Se queste interruzioni continuano nel prossimo anno si potrà determinare un aumento dei prezzi in ogni ambito del mondo delle merci. Il mondo sta così imparando una dolorosa lezione su come sono interconnessi i processi produttivi su grandi distanze.

Il fenomeno qui descritto è diverso dalle crisi del passato che riguardavano il rapporto tra sfera industriale e sfera finanziaria: si tratta qui di una sconnessione della catena fisica della produzione, un effetto di caos provocato dalla pandemia e rafforzato dal collasso geopolitico che dopo Brexit e trumpismo sta sconvolgendo l’ordine globale.

Un container che non può essere caricato a Los Angeles perché molti trasportatori sono in quarantena è un container che non porterà la soya in Iowa, lasciando in attesa i compratori in Indonesia e potenzialmente facendo scarseggiare il foraggio per animali in Asia del sud. Un blocco inatteso negli ordini di televisioni in Canada o in Giappone accentua la mancanza di chips per computer costringendo i produttori a rallentare le linee di produzione dalla Corea del sud alla Germania al Brasile. Non si vede una uscita da questa situazione dice Alan Holland, esecutivo di Keelvar, una compagnia che ha sede a Cork, irlanda, che produce software per il controllo di catene di produzione. Potrebbe durare a lungo.

Interessante, no? Per decenni il capitale ha garantito il funzionamento integrato della distribuzione globale, ha stimolato consumi per gran parte inutili e dannosi, e ha compensato la miseria esistenziale con una fornitura costante di merda consumistica. Ma ora questa compensazione si sta sgretolando. Il prezzo dei trasporti marittimi dagli USA ai paesi asiatici si è moltiplicato per dieci volte nell’ultimo anno, e dall’aprile del 2021 il prezzo del gas e dell’energia elettrica sta crescendo vertiginosamente in tutti i paesi europei. La sconnessione dei cicli globali si manifesta con effetti di caos nell’economia globale. Il capitalismo entra in una fase caotica dalla quale difficilmente potrà uscire usando le leve della finanza e dello stimolo monetario, perché questa situazione di caos dipende dalla sfera del concreto, dei corpi che si ammalano, delle menti che impazziscono, delle appartenenze che si svincolano dal globale.

Comincio a pensare che dovremo presto accorgerci di un fatto sconvolgente: il denaro, che le banche centrali si preparano a versare nel calderone delle economie occidentali, sta perdendo il suo fascino e la sua efficacia.

E possiamo immaginare per il futuro la formazione e la secessione concreta di comunità autonome che garantiscano l’alimentazione, la cura, e l’educazione. Comunità fondate sul principio dell’uguaglianza e della frugalità, sul primato dell’utile rispetto al denaro.

Europei a Americani stanno aspettando la salvezza dai trilioni di dollari e di euro che le banche centrali promettono di iniettare nel corpo agonizzante dell’Occidente. Ma il denaro non serve ad animare un corpo depresso, psichicamente fragile, e forse moribondo.

Scismogenesi vuol dire morfogenesi per separazione. Nascita di organismi autonomi da un insieme che è diventato tossico. Forse questa è la direzione in cui stiamo dirigendo.

Il problema è però se la soggettività sociale sarà in grado di esprimere autonomia, cosa che al momento appare abbastanza improbabile. Quel che prevale sulla scena è la depressione di una generazione precaria incapace di solidarietà soggettiva, e il panico di una popolazione ormai al limite della crisi di nervi non solo per l’interminabile pandemia.

Il New York Times del 1 ottobre pubblica con nonchalance un articolo che appare come un appello al panico: Ready to go, in case of disaster

Sottotitolo: emergencies may call for evacuation. Prepare your essentials in advance.

Ai cittadini di ogni parte del mondo l’autorevole quotidiano consiglia di preparare una borsa con le cose indispensabili in caso di evacuazione, di metterci dentro vestiti per una settimana, qualcosa di caldo e qualcosa di impermeabile. I documenti indispensabili, il passaporto, le ricette con le medicine indispensabili, tutti i medicinali che potrebbero servirvi, coke dei documenti assicurativi. E anche una tanica di benzina e un po’ di cibo. E naturalmente una collezione di maschere, guanti sanitari. Caricatori per il cellulare, pile, una lampada. Ah, dimenticavo, anche qualche barretta di cioccolato.

https://www.nytimes.com/2021/08/30/business/supply-chain-shortages.html

https://edition.cnn.com/2021/09/29/business/supply-chain-workers/index.html