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Per chi è arrivato all’inceppamento pandemico a ridosso della ventina o poco di più, il carrozzone d’accadimenti sanitari-politici-esistenziali non potranno averlo lasciato del tutto indifferente, o forse meglio, al contrario, mai così indifferente, nel modo di considerarne gli strascichi.

D’eccezionale, in uno stato d’eccezione, vi è l’entità del carico di dolore imposto alla singola sopportazione, l’elevazione di grado della “certezza” dimostentata dal potere, legittimato e vidimato dall’opinione degli esperti, degli accademici, dei titolari del sapere legittimo che autorizza un potere legale d’azione che si allarga via via, e infine l’imposizione di nuovi e nuove gradi e condizioni di realtà che operano nella vita quotidiana; alterazioni linguistiche, prassi ordinarie, automatismi, regole, conseguenze di questi e di quelle.
D’eccezionale, in uno stato d’eccezione, vi è la condizione d’esistenza del singolo denudata della patina d’ipocrisie non dette che ne costituiscono gli assiomi nascosti, le traiettorie di senso oggi in crisi, secolarizzate. Le maglie dei vari poteri si serrano, circoscrivendo l’entità dei recinti e dei pascoli cui è concesso razzolare alle popolazioni nazionali, mentre il senso superiore tende a sgretolarsi del tutto e l’apocalisse si presenta come un quando, piuttosto che un ipotetico se, e tutto ciò in pieno e dispiegato scientismo, ateismo, ipermodernismo, transumanesimo.

Vi è d’eccezionalmente straordinario che qualcuno ha perso la voglia di fare programmi sul proprio futuro, pensare la propria vita come un capolavoro da non gettare nella pastoia dell’insignificanza spirituale, della mercificazione tout court dell’inconscia sovrapposizione identitaria fra i molteplici strati che si interpolano fra il reale, il virtuale, il metaverso attuale – che Andrea Olivieri rende bene, nel descrivere il varco 4 al porto di Trieste, dipigendo un quadretto composito di persone fisicamente presenti ma in tutto volte al loro proprio e stesso sconfinamento virtuale; una presenza realmente pixelata.

Denudati delle certezze ipocrite, bramosi di sicurezze stabili, timorosi del cambiamento, e della crisi, spogliati d’ogni trascendenza e d’ogni alterità possibile, rispetto quest’esausto mondo sensibile, ci scopriamo paralizzati su quelle rotaie, gli occhi fissi sui fari del treno che minaccia d’investirci come le generazioni che s’accavallano e sprizzano, odorano dal nostro sangue. Come traumatizzati, abbandonati alle nostre solitudini ci siamo scoperti piccoli, vuoti e freddi, incerti in tutto, incostanti, tiepidi in ogni sentire, sempre più assenti e soprattutto insensati, di passaggio, inutili, vani.

La pandemia è un bel bagno di realtà, o d’umiltà, prima di tutto il resto; forse l’unico elemento credibile, cui credere davvero è un imperativo morale, è questo quasi imprescindibile nichilismo di fondo, punto di partenza per una ricostruzione di senso possibile, consapevolmente generato, costruito, concordato, frutto d’un lavoro condiviso. Fino a questi tempi incerti, imperturbabili soltanto godevamo dei nostri privilegi, talvolta infastiditi da qualche dubbio di passaggio, qualche timore sul senso, ben presto represso in qualche piacere dei sensi, qualche soddisfazione della carne, un po’ di droga, un po’ di sesso. Ora, squarciato il velo, tutto ciò non basta più, ma al contrario, ulteriormente svela la voragine, i mostri polverosi che negli anni avevano costruito il proprio regno sotto il tappeto e le moquettes che fanno morbide tutte quelle strane, incomprensibili storture che pervadono i paesaggi operazionali ai bordi delle città, dove la vita urbana ancora sprizza e brilla, tempestata di vetrine e profumi che scorrono impetuosi fra le luci del centro dove s’ostenta e si nega, si mente e si trangugia, e tutto per non pensare, e ciò per non ridursi soli, nel buio, a piangere.

Io credo che non ne usciremo. Certo non migliori, ma nemmeno peggiori. Non ne usciremo e basta, le vie di fuga serrate una ad una, il dissenso sempre più stigmatizzato, strumentalizzato, manipolato e represso, schiacciato fra quelle pareti alte asfittiche e metalliche che adombrano i monumenti alle vittime dei totalitarismi, dei campi, del potere che giunto all’apice del ciclo di sé stesso non può che irrigimentarsi, crescere e fiorentemente splendere nello spreco, nell’abuso fine a sé stesso, nell’oltre il governo, l’amministrazione, la plasmazione, la costruzione e l’alterazione del soggetto suddito e della popolazione gregge: il controllo, oltre tutto questo, è prima di tutto predittivo, oltre che ovviamente repressivo. E’ nel circoscrivere il campo del pensiero possibile, nel plasmare vagonate d’individui che non possono pensare un altrimenti alla loro sudditanza, il “compimento del compito” portato a termine dallo Stato, dal potere, da chi comanda; allora la creatura si dimena, smania e impreca, ma poi poco alla volta si redime, e tristemente accetta la sua condizione, si piega e cerca di dimenticare.

Ogni giorno quelli come me si alzano e sanno che dovranno ribadirsi di esserci sebbene il senso latiti, dovranno guardare in faccia la propria insensata presenza al mondo, con un pugno ben assestato fracasseranno l’immagine riflessa nello specchio dentro di sé, la cui giornata inizia andando in mille pezzi, e versando lacrime di ghiaccio, preventivamente sedati, tristi e inconsolabili si siedono al tavolo della cucina, soli, che il sole splende già da un po’, ancora una volta sopraggiunti troppo tardi, premeranno un tasto e si troveranno un caffè in mano. Senza vie di fuga, senza vie d’uscita. E senza programmi sul futuro, progetti per un avvenire ri-sensato, disegni di vita, ragioni d’entusiasmo. Solo qualche parametro produttivo, qualche interazione ormai stinta, parole sorrisi pensieri inquietudini e poi di nuovo il buio, il silenzio rotto dai crepitii delle zone industriali dei dintorni, voci soffuse goliarde che imprecano qualche certezza, così per fuggire la paura. Il tasso d’invivibilità cresce, giorno per giorno, e la strenua ingenua irrazionale esigenza di sopravvivere con esso. E sempre e solo, in compagnia della noia.

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