Archive for September, 2021

Grammatica demografica

Tuesday, September 28th, 2021

“La mia realtà mi elimina, non dite che è colpa mia”
Smart Cops, Realtà Cercami, 2012

“Ascoltando” la lezione di demografia sociale di giovedì mattina, registrata su Panopto e gentilmente resa fruibile dalla prof che, per far lezione, pendola ogni volta fra Milano e Bologna – e ritorno. Per leggere delle slides che introducono alla terminologia della materia. Senz’altro noiosa, indubbio, ma c’è qualcosa di più, o almeno – in qualche modo – pare trasparire qualcosa di altro. Ogni cosa è detta come non potesse essere altrimenti, e un filo sottile come lega la noia che suscita e l’accettazione della sua naturale ovvietà: le generalizzazioni frequenti, la tendenza ad assolutizzare, la lingua si schiaccia e s’appiattisce mostrandosi come al servizio dei dati. La voce dell’insegnante, estremizzando, pare poco più che il collante che unisce i puntini incolonnati che puntellano ciascuna slide, ché del resto legge le parole già dette, già scritte sulla slide. Non c’è sorpresa, non c’è veramente qualcosa di più, qualcosa in più.

Tante questioni corollarie possibili contornano questa frequenza a-sincrona e forzosa che il piano di studi impone anche a chi, potesse, non sarebbe qui [ma poi, qui dove?]. Ritorneranno…

La graduale scomparsa dei tempi (congiuntivo, passato semplice, imperfetto, forme composte del futuro, partecipa passato…) dà luogo a un pensiero al presente, limitato al momento, incapace di proiezioni nel tempo.
La generalizzazione del tu, la scomparsa delle maiuscole e della punteggiatura sono altrettanti colpi mortali portati alla sottigliezza dell’espressione.
Cancellare la parola ′′ signorina ′′ non solo è rinunciare all’estetica di una parola, ma anche promuovere l’idea che tra una bambina e una donna non c’è nulla.
Meno parole e meno verbi coniugati sono meno capacità di esprimere le emozioni e meno possibilità di elaborare un pensiero.
Studi hanno dimostrato che parte della violenza nella sfera pubblica e privata deriva direttamente dall’incapacità di mettere parole sulle emozioni.
Senza parole per costruire un ragionamento, il pensiero complesso caro a Edgar Morin è ostacolato, reso impossibile.
Più povero è il linguaggio, meno esiste il pensiero.
La storia è ricca di esempi e gli scritti sono molti di Georges Orwell in 1984 a Ray Bradbury in Fahrenheit 451 che hanno raccontato come le dittature di ogni obedienza ostacolassero il pensiero riducendo e torcendo il numero e il significato delle parole .
Non c’è pensiero critico senza pensiero. E non c’è pensiero senza parole.
Come costruire un pensiero ipotetico-deduttivo senza avere il controllo del condizionale? Come prendere in considerazione il futuro senza coniugare il futuro? Come comprendere una temporanea, un susseguirsi di elementi nel tempo, siano essi passati o futuri, nonché la loro durata relativa, senza una lingua che distingua tra ciò che sarebbe potuto essere, ciò che è stato, ciò che è, cosa potrebbe accadere, e cosa sarà dopo che ciò che potrebbe accadere? Se un grido di raduno dovesse farsi sentire oggi, sarebbe quello rivolto a genitori e insegnanti: fate parlare, leggere e scrivere i vostri figli, i vostri studenti, i vostri studenti. Insegna e pratica la lingua nelle sue forme più svariate, anche se sembra complicata, soprattutto se complicata. Perché in questo sforzo c’è la libertà. Coloro che spiegano a lungo che bisogna semplificare l’ortografia, scontare la lingua dei suoi ′′ difetti “, abolire generi, tempi, sfumature, tutto ciò che crea complessità sono i becchini della mente umana. Non c’è libertà senza requisiti. Non c’è bellezza senza il pensiero della bellezza “.

(C. Cleave, trovata per caso, in giro sul web)

Pensieri durante lezione

Friday, September 24th, 2021

Murati fra i meandri d’uno schermo, segregati in casa (“come sorci”) e relegati ad una solitudine che non può dirsi altro che assoluta, gli studenti che seguono “a distanza” guardano, soli e sconsolati, l’aula nella quale quelli presenti in loco socializzano, cominciano a conoscersi nei momenti di pausa, quando la lezione s’interrompe ma la videocamera che riprende un ampio scorcio della stanza lascia intravedere – ma non sentire, se non in modo sconnesso e comunque incomprensibile – qualcosa dal quale quelli lontani sono inevitabilmente, inesorabilmente esclusi. La lezione è una merda, molto più delle altre, e forse è per questo che dura quattro ore invece che due. In classe c’è meno gente di quella che potrebbe starci, la capienza s’è fatta un fatto politico, una decisione arbitraria come un’altra, e chi presenzia, oltre al marchio fedeltà deve rispettare le regole precedenti, che non se ne sono mai andate: la maschera, la prenotazione preventiva, l’esibizione del lasciapassare, segnarsi di qua, confermarsi di là, “essere responsabili”. Chi è a casa è meno sotto pressione, da questo punto di vista, ma al contempo è solo, del tutto e in tutto solo. Può ridere delle stronzate che dice il prof, può sentirle come un ronzio di sottofondo standosene in mutande e tenere i piedi sulla scrivania, può violare quelle norme sociali – quelle vecchie, di costume, e quelle nuove, ugualmente di costume ma ben più repressive, e questo essenzialmente per un motivo prima degli altri: perché non è visto. Non vi è certezza di ciò, certo, e senz’altro non se “sceglie” (ancor più paradossale: “decide”) di tenere accesa la videocamera del terminale da cui tenta, in un modo abietto, d’esser presente a ciò che avviene in un altrove che magari conosce e brama, ma che ciononostante gli è precluso. Vita è vedere ma al contempo ‘esser visto’, l’intriseca – e per molti, inconsapevole – consapevolezza (o speranza, o ambizione) di esser guardati da qualcuno. Cambia l’intensità a seconda degli ambiti e delle circostanze, cambiano le aspirazioni a seconda degli abiti e delle sensazioni, ma quel sottile velo di guardabilità, che potremmo dire possibilità d’essere guardati… è essenza di vita, oggigiorno. Lo era per i greci, lo è per noi di oggi, sebbene filtrati e immortalati in una miriade di scatti e ritocchi, didascalie e velleità. E’ questo un elemento sostanziale che i social strumentalizzano e cannibalizzano (oltre altri concetti secolari come l’amicizia e il piacere, certo; non è questo il momento), è su questo tasto dolente, al contrario, che s’opera la leva di quest’inumana discriminazione ricoperta d’una patina di verde e d’un’altra di carattere pseudo-sanitario. Chi non è presente è un pallino e un nome, se non inserisce una foto di sè, e questo frustra prima di tutto sé stesso, invisibile agli occhi degli altri.

Alle 12.17, al finir della pausa, il professore – un ingegnere senza ingegno, verosimilmente un idiota – esorta quelli “da casa” a scrivere nome e cognome in chat, seduta stante, affinché anch’essi mostrino d’esserci, d’essere dinnanzi lo schermo, e poco importa se seguono, se sono sdegnati o annoiati, dove effettivamente sono: ciò che conta è che sentano l’ordine impartito ed eseguano, obbediscano. Lo scrivo, le iniziali in minuscolo, e subito penso di scrivere a Sara, che so che è in classe, un messaggio su whatsapp: “ora capisci cos’è la biopolitica?”, ma demordo quasi subito, perché so che non capisce e non capirebbe, forse un giorno capirà, ma magari pure mai, ed eppure tante volte sarà più felice di me.

L’obbedienza non è più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, attaccava quel prete di Barbiana a metà anni sessanta che ben presto dio capitale ha fagocitato come ogni altra cosa, compreso il nostro immaginario, il nostro onirico, il nostro intero orizzonte di pensiero: prima di lui tanti altri, tutti già passati altrove, “tutta gente che aveva capito”, canterebbe Faber. Eppure la cieca obbedienza è troppo tentante, allettante, troppo conveniente per troppo e per troppi. L’ho detto e lo penso tuttora, diventare grandi significa fare ciò che ci conviene e smettere di problematizzare ciò, più di tanto. Gran parte delle volte significa obbedire ciecamente, anestetizzare la volontà e il senso critico e obbedire, fare ciò che ci è comandato. Quelli che disubbidiscono, che puntano i piedi e fanno attrito e resistenza sono un po’ come quei bambini che da piccoli vedevano il bulletto che se la prendeva con qualcuno e avevano paura di (re)agire, mettersi in mezzo e difendere il malcapitato di turno, e così se ne stavano in disparte e si sentivano in colpa per quel loro essere felloni, ma pure – col tempo, granelli di sabbia sedimentati nell’inconscio – sentivano crescere dentro l’odio (quasi ingiustificato, quasi, paradossalmente) verso i prepotenti. Oggi questa razza di ex bambini in via d’estinzione si ostina a non voler ubbidire a uno stato prepotente e villano, mentre tutti gli altri, tornati un po’ bambini, ubbidiscono ora come allora e sguazzano nei loro privilegi ritrovati: consumare al ristorante, consumare al tavolo, consumare sé stessi – mostrandosi però rigorosamente felici e presi bene – verso un baratro sempre più scuro. Lo stato li tratta da bambini, gli dice cosa possono fare e cosa no, come devono vestirsi e come coprirsi il volto, ne irride la dignità e li scannerizza come i polli sul rullo del supermercato, li fa codice e li passa allo scanner.

In coda alla cassa, ieri, aspettavano pazienti il loro turno per barattare il cibo necessario a farsi sazi – e quindi sopiti – per una settimana in cambio d’un corrispettivo in denaro – che poi è un corrispettivo in tempo, quello impiegato a “guadagnarselo”, lavorando e quindi sudando o no, a seconda del tasso del privilegio di ciascuno: oggi invece, ugualmente pazienti ma ben più sottomessi, aspettano sul rullo al fine di essere ammessi al supermercato di turno (lo spazio dove consumeranno – vedi sopra, o lo spazio culturale come il teatro o l’università, pur sempre un teatro, o meglio un palcoscenico, seppur almeno in parte diversamente snob). Una volta ammessi – a discrezione del dispositivo di controllo, rigorosamente – consumeranno e saranno consumati, brinderanno al contrario della salute per chi manca e, come sempre, pagheranno due volte in tempo quel bisogno di sentirsi inclusi e visti.

In certi momenti è difficile resistere, tirare avanti, ma poi passa, la lezione finisce e ritorna il silenzio, il sole brilla, la brezza soffia sulle cose, i colori risplendono e lo schermo tace. E torna la quiete, un po’ alla volta, il rancore e la superbia si sciolgono scaldati dal sole, una bozza di sorriso bonario torna a solcarmi il volto, timido: scrivere è pur sempre un atto liberatorio, se scinto dal giogo della produzione e scevro dall’idea d’un qualsiasi compenso. Non c’è verso di vincere questa guerra – noi Comunardi non stiamo combattendo, del resto, oggi come tanti anni fa, noi vorremmo (o meglio: vogliamo) solo vivere, camminando verso un mondo più bello – o almeno, un pizzico più sensato di questo.

Chiudono le parole di G. Anders da “L’uomo antiquato”, 1956, ben attuali per questi tempi tristi. Alla prossima

“Per soffocare in anticipo ogni rivolta, non bisogna farlo in modo violento. I metodi come quelli di Hitler sono superati. Basta creare un condizionamento collettivo così potente che l’idea stessa di rivolta non verrà nemmeno più in mente agli uomini. L’ideale sarebbe formattare gli individui fin dalla nascita limitando le loro abilità biologiche innate. In secondo luogo, si prosegue il condizionamento riducendo drasticamente l’istruzione, per riportarla ad una forma di inserimento professionale. Un individuo ignorante ha solo un orizzonte di pensiero limitato e più il suo pensiero è limitato a preoccupazioni mediocri, meno può ribellarsi. L’accesso alla conoscenza deve diventare sempre più difficile ed elitario, il divario tra il popolo e la scienza deve aumentare, l’informazione destinata al grande pubblico anestetizzata da qualsiasi contenuto sovversivo.
Soprattutto niente filosofia. Ancora una volta bisogna usare persuasione e non la violenza diretta: attraverso la televisione si diffonderanno intrattenimento lusinghiero, sempre più lusinghiero, emotivo o istintivo. Occuperemo gli spiriti con ciò che è inutile e divertente. È buono, in una chiacchierata e in una musica incessante, impedire che la mente pensi. Metteremo la sessualità in prima fila tra gli interessi umani, come tranquillante sociale non c’è niente di meglio.
Si farà in modo di bandire la serietà dell’esistenza, di girare in derisione tutto ciò che ha un valore elevato, di mantenere una costante apologia della leggerezza, in modo che l’euforia della pubblicità diventi lo standard della felicità umana e il modello della libertà. Il condizionamento produrrà così da sé una tale integrazione, che l’unica paura – che bisognerà mantenere – sarà quella di essere esclusi dal sistema e quindi di non poter più accedere alle condizioni necessarie per la felicità.
L’uomo di massa, così prodotto, deve essere trattato come quello che è: un vitello, e deve essere sorvegliato come deve essere un gregge. Tutto ciò che permette di addormentare la sua lucidità è socialmente buono, ciò che minaccia di svegliarlo deve essere ridicolizzato, soffocato, combattuto. Qualsiasi dottrina che metta in discussione il sistema deve prima essere designata come sovversiva e terroristica e chi la sostiene dovrà poi essere trattato come tale.”