L’alienazione libertaria

Ferdinando Pastore su l’interferenza, otto novembre duemilaventuno

“Il Covid ci ha cambiati”. Questa considerazione scorre nelle conversazioni giornaliere, tra amici, nei bar. Talmente di uso comune ormai, di facile scorrimento, da alludere al fatto straordinario che nulla è cambiato.
Certo qualche conflitto sociale è riemerso dalle sabbie mobili del sindacalismo concertativo e qualche contraddizione di classe si riappropria di una sua naturale conflittualità. Ma l’uso comune della formula “ci ha cambiato”, il suo riferirsi a sintomatologie psicotiche, il suo svelarsi in termini allucinatori rappresenta di per sé una sconfitta culturale.
Ogniqualvolta una questione propriamente politica viene rovesciata al personale, a bisogni istintuali si offre spazio alle lezioni imprenditoriali sulle rigenerazioni personali, ai corsi di coaching che educano alla riscossa, allo stato performativo. O a cure farmacologiche. Così il percorso egemonico del “discorso capitalista” compie ulteriori passi in avanti. Psicologizzare le fratture sociali è lo stratagemma per anestetizzare la società.
Anche i giovani cadono nel tranello ed esprimono questa esigenza esistenziale. Lo si può notare nelle recenti occupazioni scolastiche dove le rivendicazioni – seppur qualcuna condivisibile – partono dalla descrizione di uno stato d’animo. Il trauma insuperabile degli anni vissuti a distanza, privi di connessioni. Mancata fioritura della Rete.
La spinta ribelle si nutre di frustrazione, del disagio di non poter essere qualsiasi cosa. Di un difetto di potenza.
Ma se tutto si declina al soggettivo l’idea della liberazione nel mercato troverà meccanicamente risposte pronte, adeguate al sentimento di inappagamento percepito. L’emancipazione sarà prescritta dalle consuete ricette. Si dovrà investire con coraggio e a debito nelle proprie illusioni. Chi agirà razionalmente godrà di meritate ricompense. Didattica del sogno a occhi aperti.
David Harvey ha giustamente osservato che il capitalismo riuscì a dare una soluzione alla richiesta libertaria insita nella contestazione sessantottina. La libertà di agire illimitatamente negli interstizi dei mercati, nella loro impalcatura anti-gerarchica, nella promessa di affrancamento dai precetti del Padre, della Chiesa, dello Stato, dei sindacati e dei partiti. Il diritto ad avere diritti. Sempre nuovissimi.
L’epica o la “narrazione”, come amano dire i neo-sapienti dell’utilitarismo contemporaneo, gioca su un concetto ambiguo di libertà che non si libera più da qualcosa [“libertà da”, libertà negativa]. Segue sempre la traccia dell’espansione di sé [“libertà di”, libertà positiva]. Questa predisposizione alla libertà avrebbe sconfitto definitivamente uno dei pilastri della critica al capitalismo, l’alienazione.
L’individuo non può dirsi più alienato poiché sceglie gli investimenti che porteranno alla propria realizzazione ed eventualmente al proprio fallimento. Nessuno fa oggi ciò che non vuole fare. Di rimando nessuno può dichiararsi realmente sfruttato. L’opzione è l’auto-sfruttamento. Sei il padrone di te stesso. Corri, ama, investi, sballati, pensa ai risultati.
Quindi la popolazione si scanna ferocemente sulla promessa di libertà. Un vecchio motto, apripista nell’individualizzazione delle dinamiche sociali, ritrova dignità nel sentire comune. Il personale è politico. L’obiettivo è comune alle due fazioni. Tornare alla normalità. Ma è quella normalità a rappresentare il problema. A rendere l’alienazione invisibile ma sempre più schiacciante.

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