operazione zero note

Un anno e mezzo di appunti inespressi, rimasti come note fra le pieghe di questo spazio senza definizione ne attributi. Le incollo di seguito, insieme a qualche immagine che colori questi meandri, senza una logica né un motivo, per vedere qualcosa compiersi, nella negligenza di questo tempo. Non vi è ragione alcuna, né per le parole né per le immagini, talune vengono dal web talaltre sono fotografie di chi scrive o di chi legge, poco importa – non è questo un luogo che necessiti della presenza d’un padre, e d’un padrone neppure. Sarà più interessante, fra due anni magari, rileggere e vedere temi ridondanti, parole ripetute e col tempo dimenticate, modi di fare e di dire e di pensare che si saranno estinti un poco alla volta. è un piccolo dono sottratto al disordine che mi domina

quattordici giugno “Quando il mondo brucia in questo modo, è caldo perfino per pensare”, biascicava un vecchio camminando sghembo, poggiato ad una zanetta arrugginita, mentre si dirigeva verso casa dopo avermi raccontato qualcosa delle terre fertili d’intorno che un po’ alla volta finiscono rosicchiate dalle infrastrutture, i capannoni e l’asfalto, nero e bollente sotto il sole di giugno, che dilaga: impazza, letteralmente dilaga.

undici ottobre C’è una violenza estrinseca nella pubblicità, l’avvicendarsi d’immagini intense e voluttuose giustapposte in sequenze frenetiche, scatti che sferzano lo sguardo e violentano l’occhio, che alla lunga non può finire che come un maniaco di questi vortici di colori vividissimi e gigantesche falsità, voci fuori campo che dicono libertà bisogno sogno felicità

Le macchine sfrecciano nel mezzo di nature incontaminate create al computer e una voce di vecchio, saggio e premuroso avanza fior di promesse, sa quello che dice: c’è l’idea d’una libertà ritrovata, sotto la predisposizione all’azione dell’acquisto di un’automobile.

quattordici ottobre
C’è una terra di mezzo nascosta ben bene,
celata da un vello di nebbiolina odor dell’argento
che pervade l’aria ed impedisce l’arrugginirsi delle cose;
là si combatte solo per gioco
ci si potrebbe tanto divertire, senza le tasse sui giocattoli

sei novembre Il mondo digitale sta sul pelo dell’acqua, sta fuori, nell’aria sopra l’aria, e poco poco sporge, dall’acqua, di tutto quello che vi avviene sotto, dove la gente che scrive vive, o si dice indaffarata a farlo. Pochi iceberg, di questi tempi tiepidi, il livello dei mari si alza come la temperatura, l’apocalisse si avvicina. Sotto è una bella confusione, respirare è difficile, sott’acqua.

due gennaio Il conto alla rovescia perdura fino agli sgoccioli, poi s’esaurisce e scompare come è venuto

quindici gennaio è uno di quei periodi con tante schede aperte su internet, una dozzina abbondante, e poi tante questioni in ballo e in bilico, la solita nevrastenia a far da sottofondo ad un’esistenza temporaneamente rinchiusa – a forza, s’intende, soggiogata ad un duplice obbligo, quello normativo dono dell’autorità che si prende la briga d’occuparsi di me e quello informale (ma altrettanto disumanizzante) frutto dell’autorità paterna, quella che un tempo era democrazia cristiana che oggi s’esterna nell’assurgere a norma la decisione del momento: ad oltranza, normalizzare l’eccezionalità d’una decisione d’un istante. e poi esami da preparare, cose da scrivere e da studiare, bozze di pensieri che non centrano con il focus principale e nessuno a cui poterle dire; sensazione di relazioni insoddisfacenti, ma in una prospettiva ben più sociale di quanto potrebbe apparire a primo impatto. diluita nell’onnipresenza e nell’onnipotenza della possibilità comunicativa, la voglia d’entrare in relazione con l’altro svilisce: quando è gratis, vale un po’ meno, di solito, ed è difficile che si prenda il rispetto che si merita. ma cosa? con cosa non succede?

e allora si tende – silenti, e drammaticamente tristi – verso gradazioni rarefatte d’uno stadio d’incomunicabilità che non si presenta come una deriva teleologica, quanto piuttosto come un momento intermedio del dramma apparentemente senza fine che stiamo abituandoci a pensare le nostre esistenze. si perde la voglia, e poi non ne vale più la pena, e poi leggiamo e sentiamo pronunciate tante di quelle “parole” che è difficile ascoltare per davvero, rimanere colpiti da chicchesia, trovare in noi una disposizione d’ascolto che sbrindelli l’indifferenza. se la scuola era ed è un attentato al leggere ed allo scrivere, la tecnologia e le sue tecniche droganti e compensatorie attentano – non in modo autonomo, né isolato – all’affettività, alla sensibilità, al discernimento, alla capacità di concepire gradazioni, priorità, valenze, differenze. è quando un incontro finisce ad esser pensato come un incontro online… o poco più, è quando ogni mattino l’analisi costi-benefici tende a farci protendere verso la lezione a distanza, è l’affastellarsi di quest’orizzonte di pensieri che ci fotte. l’ha già fatto, siamo già fottuti, e il mio pensiero è un cielo di piombo e la notte impera

sette febbraio, In memoria di noi personaggi – Panni scomposti ammucchiati ai bordi del divano, subabissato di pile d’abiti lavati e stirati, una bacinella verde di plastica che ogni volta che impatta contro qualcosa rimbomba nel suo vuoto, il ticchettio d’un orologio desincronizzato con un paio d’altri – sparsi per la casa – che sproduce tutt’un eco ed un crepitio di ticchettii, in battere e in levare senza sosta, un continuo perpetuo che sembra una sospensione dal tempo e ben simboleggia questo ‘presente apparentemente perenne’ a cui siamo (o solo sembriamo?) condannati, una condanna ed una condizione di possibilità, una responsabilità ed una conclusione-per-esclusione.

Invasi dalle cose, ci barcameniamo fra gli interstizi rimasti vuoti e liberi (“hai mica un momento libero?”), sediamo circondati dalle cose che stanno tutt’intorno e popolano i sogni; sogni cosificati? [“Io sono Giulietta, e sono fatta della stessa materia di cui sono fatti i sogni”]. In futuro, magari avrà successo fra i ricchi l’ausilio d’un motivatore personale alla pratica cestinale, colui che t’appresta – con garbo – e s’adopera – con naturalezza – all’alleggerimento dalle cose

ventuno febbraio slide war I professori combattono con le impostazioni di riproduzione e visualizzazione dei contenuti di supporto alla didattica, tanto stamattina quant’oggi pomeriggio ineccepibili inceppamenti tecnici fanno svalvolare i prof, tesi sul filo del rasoio che fila la trama del tempo che scorre e sconfina in fretta nella fretta canonica che accompagna e scandisce i ritardi che s’affastellano disseminati fra le giornate – soffia un vento spesso da ovest verso est. Due questioni necessarie d’un degno approfondimento; il campo del possibile è rinegoziato dalla tecnica, questo era già emerso

ventisei febbraio cambiare abitudini – è una delle cose più complesse in assoluto, sembra spesso, quand’è il momento, e più il momento si attrarda e più è complicato smuoversi, disabitui a cambiare qualcosa di noi e del nostro modo di fare, sempre più adulti e per questo sempre più restii al cambiamento, qualsiasi esso sia. si cresce, e ci si radica negli automatismi che scandiscono il ritmo delle giornate, e così allora il gusto dell’esistere s’incardina a certi pensieri automatici, a certe convinzioni vitali che si fanno assiomatiche individuali, soggettività costruite da noi e dagli altri, dal mondo e dai media, dal sole e dalla notte che ci fanno le persone che siamo, soggetti a ciò che ci consente di vivere. le nostre abitudini sono il nostro modo di condurre il gioco della vita

cinque marzo, Pubblicato sulla rivista Vita e Pensiero il 5 marzo 2022, qui. In calce due note a margine.

Se non sei per il nuovo “neutralizzante” sei per il vecchio discriminante: così si potrebbe riassumere in modo un po’ caricaturale, ma non poi così lontano da ciò che accadde, il dibattito sul cosiddetto “linguaggio inclusivo”.

In questo breve spazio vorrei sollevare tre questioni, che sono poi tre sollecitazioni alla riflessione, con un invito preliminare a cercare, per quanto possibile, di superare la fallacia dualista (come cercherò di argomentare) che è alla radice della questione.

Come scriveva Adorno, la libertà non sta nello scegliere tra bianco e nero, ma nel sottrarsi a questa scelta prescritta. Il mio invito è a sfuggire dalla logica mutilante della polarizzazione – quella sì, binaria – che mortifica la complessità delle questioni e cade nella stigmatizzazione del dubbio, che non è più consentito: perché dentro lo schieramento, da una parte e dall’altra, solo l’allineamento è ammesso.

Così si uccide il sacrosanto diritto alla critica (da krino, discernere), senza la quale ci consegniamo a un non-pensiero che apre la via alla violenza, simbolica e non, e ai fondamentalismi di ogni natura e colore.

I tre spunti sono i seguenti.

Il “linguaggio inclusivo”
Primo: il cosiddetto “linguaggio inclusivo” (asterischi, schwa, etc.), per quanto nobile nell’intenzione produce di fatto un cortocircuito del principio di non discriminazione:
con l’effetto paradossale che cancellare le differenze diventa l’unico modo legittimo per difenderle. Contrastare la violenza della discriminazione con la violenza della cancellazione delle differenze è gesto reattivo e alla fine intrappolato in una schismogenesi complementare: due posizioni polarizzate, egualmente parziali, l’una l’opposto dell’altra si escludono e insieme si tengono a vicenda. Determinando una frattura insanabile, ma in un rapporto che alla fine è di dipendenza reciproca.

Il tutto a danno di una concretezza e complessità che viene immolata sull’altare delle opposte ideologie. La sfida non è cancellare le differenze (operazione astratta e violenta) ma evitare che diventino disuguaglianze. E non è un caso che a fronte di un inclusivismo nominalistico crescano le discriminazioni e le esclusioni di fatto: donne, migranti, giovani, famiglie, restano vittime di una forbice sociale sempre più esasperata, mentre la retorica del neutro annacqua e disincarna la protesta sociale.

Roland Barthes scriveva che il linguaggio è fascista, non perché impedisce di dire le cose ma perché obbliga a dirle in un certo modo. L’invito perciò è a una riflessione sul “fascismo del neutro”, e su tutto ciò che questa forzatura linguistica ci obbliga a cancellare. A cominciare da quel “genere vernacolare”, come lo chiamava Ivan Illich, che è legame tra le generazioni, sapere del corpo, e anche luogo di resistenza alla colonizzazione del pensiero tecno-economico.

Il neutro, genere dell’homo oeconomicus

Secondo: come scriveva ancora Ivan Illich, il linguaggio dell’epoca industriale (e oggi ipertecnologica) è contemporaneamente neutro e sessista. Un falso universalismo, che è in realtà un riduzionismo spacciato per liberazione: perché gli esseri umani non sono mai “neutri” – solo le cose, e le macchine in particolare. «La comparsa di una sessualità neutra è uno dei presupposti necessari dell’apparizione dell’homo oeconomicus. Il soggetto su cui si basa la teoria economica è proprio questo essere umano neutro» (Illich, Genere).

Il neutro è il genere dell’homo oeconomicus, frutto e insieme condizione di un riduzionismo esasperato, dove vale solo ciò che è “prodotto”. Per Byung-chul Han il regime neoliberista isola ciascuno facendolo diventare produttore di se stesso. Oggi “ci produciamo” dappertutto e in modo compulsivo. La stessa “autenticità” rappresenta una forma di produzione neoliberista. «Mediante il culto dell’autenticità, il regime neoliberista si appropria della persona e la trasforma in un sito produttivo ad altissima efficienza, così l’intera persona viene integrata nel processo di produzione. La sovranità cede il passo a una nuova sottomissione che si spaccia tuttavia per libertà: il soggetto di prestazione neoliberista è, in questo senso, un servo assoluto in quanto si sfrutta da solo senza alcun padrone».

Il neutro, insomma, non solo non contribuisce alla «costruzione di un vocabolario libero dagli interessi» (Gilbert Simondon) ma ci conforma agli imperativi del tecnocapitalismo, risucchiandoci nell’abbraccio fatale, che già Foucault aveva identificato, tra individualizzazione e totalizzazione.

Perché, ha scritto anche Fabrice Hadjadj, da dove può venire oggi il progetto di «coincidere con se stessi» (il mito dell’autenticità e dell’autorealizzazione) se non dal paradigma tecnocratico?

E questo non può essere ovviamente visto come una liberazione, ma come una sottomissione a un macrosistema tecnoeconomico che ha bisogno di nuovo immaginario per farsi massimamente pervasivo. Un “paternalismo libertario” (Sunstein) che estende a ogni ambito la logica del mercato è tutto tranne che liberante e rispettoso della dignità di ciascuno.

Se la produzione (compresa la messa in produzione di sé) diventa l’unico modo legittimo di realizzarsi, la flessibilità-fluidità necessaria a questo progetto richiede «una distruzione senza scrupoli del legame» (Byun-Chul Han). Che ha come correlato culturale un individualismo radicale, alla fine condannato all’afasia. Perché l’asterisco e lo schwa sono impronunciabili, cacofonici. Servono all’espressione-affermazione di sé e non alla comunicazione, dove la parola risuona come federativa del legame io-tu (ce lo ricordava Walter Ong nelle sue magistrali riflessioni).

L’ossessione per l’identità (“libera” da condizionamenti relazionali e sociali e così alla fine consegnata alla totalizzazione tecnologica) misconosce il fatto che non siamo “prodotti”, ma processi, e che il diventare chi siamo è una dinamica (di individuazione) intrinsecamente relazionale. Come lo è la dinamica vitale della generazione, altrettanto originaria quanto la produzione. L’amore di sé che non è apertura all’altro (alter costitutivo, non aliud minaccia) diventa vacuo: «L’amore che ritorna su di sé chiudendo il cerchio è un triste scacco dell’amore» (V. Jankélévitch).

La crisi del simbolico
E infine: il neutro come unica via per la non discriminazione è il frutto di una crisi del simbolico che ci espone senza difese a una creolizzazione tecnologica dove l’umano è letto col codice della macchina
(binario/non binario appunto).

La crisi del simbolico è un segno di quella “crisi dello spirito” che per Paul Valéry era anche una crisi del pensiero. Ed è questo oggi il vero nemico da cui guardarsi.

Per Byung-chul Han la scomparsa dei simboli rimanda alla crescente atomizzazione della società, che diventa sempre più narcisistica. Ma c’è dell’altro. All’estensione della produzione a ogni ambito della vita umana si accompagna una riduzione del linguaggio al paradigma tecnoscientifico, fatto di termini (etichette senza resto, perfettamente aderenti all’oggetto) anziché parole (simboli che legano chi le pronuncia agli altri e al mondo) (Panikkar, Lo spirito della parola).

Alla fine il non essenzialismo del neutro si tramuta in una metafisica neoessenzialista della macchina e della produzione; che parla un linguaggio autoreferenziale che non è fatto per comunicare ma per fabbricarsi; nell’illusione di poterlo fare da soli, come somma di scelte individuali a prescindere da tutto.

Il simbolo è ciò che lega: è letteralmente la concretizzazione del legame sociale, che circola e circolando lo alimenta (Gilbert Simondon). Che siamo legame, e che questo non è un impedimento ma la condizione stessa del nostro esserci e del nostro divenire, la pandemia ha cercato di insegnarcelo.

Il legame è una realtà esistenziale e anche epistemologica.

Il simbolo non è mai neutro. Non rassicura, non risolve. Dà a pensare (Ricoeur). Pensare nel simbolo significa anche riconoscere la dualità (non il dualismo, tantomeno il binarismo!) di maschile e femminile, reciprocamente costitutivi, non pensabili l’uno senza l’altro, mai definibili in modo esaustivo (con buona pace dei grotteschi tentativi di trovare un termine per ogni sfumatura di genere), inesauribili nella gamma delle possibili concretizzazioni.

La questione del linguaggio
E così torniamo alla questione del linguaggio. Il linguaggio umano non è referenziale ma “differenziale”: c’è sempre uno scarto, un margine di non dicibile che lascia aperte le parole. La non-coincidenza è la culla del significato: “Non ci sono che sottintesi in qualsiasi lingua”, scriveva Merleau-Ponty. La “decoincidenza”, come la chiama anche François Julien, è ciò che caratterizza la libertà: uno scarto che consente la possibilità di vedere diversamente, ridefinire la situazione e così poter cambiare il corso delle cose.

Allora, parafrasando Adorno, libertà oggi non è sostituire “non binario” a “binario”, ma sottrarsi a questa scelta prescritta, che pretende di leggere l’umano col codice delle macchine.

E tornare a pensare e parlarci nel simbolo, che accoglie tutti.

(fine)

Fra i tanti stimoli offerti dal contributo proposto qui, del tutto in linea con una delle direttrici principali della ricerca-indagine sul vivere che accompagna il senso di questo spazio virtuale – l’interrogazione sulla lingua, il suo ruolo e i suoi buchi neri – sempre per affettare la complessità a colpi di barbarie, vi è un passaggio davvero necessario, io credo, quello sulla condanna all’afasia implicita nella deriva tendenziale rappresentata dall’inclusione esclusiva dei sommovimenti della lingua di oggi.

primo giugno

“Ho mille libri da leggere e solo un paio di occhi, e
mia sorella cento paia di scarpe ma non abbastanza piedi
per calzarle tutte insieme”

Nei giorni trascorsi in casa, del tutto, senza una giustificazione ufficiale d’inattività legale (vedi: la malattia, qualsiasi essa sia), sale l’inquietudine del vedersi sommersi di cose – da fare, da leggere, cui dedicare attenzione – è un’oggettiva impossibilità di districarsi fra tutto ciò: “mi servirebbero giornate di quarantotto ore”, dicevo a mia madre qualche anno fa; “e quante di queste ne dormiresti?”, mi rispondeva lei – con una domanda, come molto spesso càpita. Così ho smesso di cavalcare quella suggestione infantile, o forse ho preso a vedere i giorni a due a due, per raddoppiarne l’entità, ma l’inquietudine permane, ed anche per essa sperpero tempo, molto, e così ne rimane sempre troppo poco (“non è vero che non abbiamo tempo, è che ne perdiamo tanto”), e il circolo vizioso si rinsalda, si rinserra in una disecologia esistenziale farraginosa ed iperinquieta, circolare e viziosa. E a fine giornata ti sembra di non aver fatto nulla, e con il buio i demoni salgono in cattedra, tarlando il sonno.

trenta novembre le nostre bolle sono segrete, sono un’intimità indicibile, i nostri segreti sono le nostre ricerche digitali, le nostre manìe e le perversioni, culti che coltiviamo senza rendercene conto, disposizioni che assumiamo senza la consapevolezza di farlo. ci insegnano i nostri pensieri, ce li presentano in modo inattaccabile, ci dicono cosa dire, come farlo. ci divertiamo come ci dicono si fa, ci muoviamo come vogliono.

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